Istituti socio-sanitari
Essere una “casa di vetro”, trasparente e in uscita, attenta alle periferie. Promuovere il lavoro in rete, curare la formazione degli operatori e puntare sempre più all’eccellenza. Rendere più visibile la presenza dell’Aris nel tessuto della sanità italiano. Queste le priorità e le linee d’impegno per padre Virginio Bebber, camilliano, da qualche giorno nuovo presidente dell’Associazione religiosa degli istituti socio-sanitari
Essere una “casa di vetro che guarda oltre le proprie pareti e al cui interno tutti possono guardare, trasparente e in uscita, attenta alle periferie”. Promuovere il lavoro in rete perché nessuno è un’isola. Migliorare ulteriormente la formazione degli operatori e puntare sempre più all’eccellenza. Rendere più visibile la presenza dell’Aris nel tessuto della sanità italiano. Queste le priorità e le linee d’impegno per padre Virginio Bebber, camilliano, da qualche giorno nuovo presidente dell’Associazione religiosa degli istituti socio-sanitari (Aris) che riunisce complessivamente 235 strutture sanitarie cattoliche: 26 tra Irccs; 17 ospedali classificati; 10 presidi Asl; 36 case di cura; 31 residenze sanitarie assistenziali (Rsa) ed ex istituti psichiatrici. A fare la parte del leone sono i centri di riabilitazione: 115. A questi numeri occorre aggiungere la Fondazione Don Gnocchi con i suoi due Irccs e i suoi centri di riabilitazione diffusi sul territorio, e altre realtà che hanno presentato richiesta di adesione.
Padre Bebber è stato eletto lo scorso 14 marzo durante l’Assemblea generale a Roma per il rinnovo delle cariche. Nato a Mezzolombardo, in provincia di Trento, nel 1944 e ordinato sacerdote nel 1970, dopo aver ricoperto numerosi incarichi, è attualmente superiore della comunità della Casa di cura San Camillo di Cremona. Al neopresidente, che resterà in carica per cinque anni, chiediamo su quali punti concentrerà il suo impegno alla guida dell’associazione che dallo scorso settembre ha un nuovo statuto, approvato dal Consiglio episcopale permanente della Cei, in sostituzione del precedente del 1990.
Quali le sfide e le priorità dal punto di vista sanitario?
Anzitutto la crisi economica che ha condotto 11 milioni d’italiani a rinunciare alle cure. Già da diversi anni ho denunciato in Lombardia l’avanzare di una povertà strisciante che spingeva persone, all’atto del pagamento del ticket, ad annullare le visite o le prestazioni prenotate. Molte delle nostre strutture in quella Regione praticano da tempo tariffe agevolate e, per quanto ci riguarda, è questa la direzione da intraprendere o sulla quale proseguire. Credo però che lo Stato dovrebbe rivedere la politica dei ticket, altrimenti il risparmio di oggi rischia di tradursi in aumento delle malattie e della spesa sanitaria nazionale nei prossimi anni.
In che modo la trasformazione dello “statuto” della medicina e le questioni del fine vita vi interpellano dal punto di vista pastorale?
La nostra mission è guardare i pazienti terminali negli occhi, accudirli, accompagnarli con le migliori possibilità offerte dalla medicina, le cure palliative. Rifiutando l’accanimento terapeutico ma mettendoli in condizioni di vivere bene gli ultimi istanti di vita. Del resto è in una nostra struttura, la casa delle Ancelle della Carità di Brescia, che a metà degli anni Ottanta è nata la Domus salus, primo hospice in Italia. La morte è un momento di straordinaria intensità umana e cristiana e la pastorale è vicinanza, saper pregare con il malato, dire una parola che conforti, è soprattutto accompagnare con affetto.
La preoccupa il ddl sul testamento biologico in discussione a Montecitorio?
Sì. Le nostre strutture sono e dovranno continuare ad essere per la vita, mai per la morte. La legislazione attuale contempla già oggi l’accompagnamento del fine vita con le cure palliative e la sedazione. Il nodo vero è che andrebbero garantite in modo equo in ogni Regione, senza costringere i pazienti a peregrinare da un luogo all’altro. La questione è molto delicata, ma ribadisco che
il medico è per la vita, non per la morte. Occorre lasciargli, in scienza e coscienza, la valutazione e la responsabilità delle decisioni
pur nel confronto con il paziente e i suoi familiari. Non si può pensare di prescindere dall’alleanza “medico-paziente”.
Quali le linee operative definite dall’assemblea generale?
Essenzialmente due. Anzitutto spingere i nostri associati a lavorare in rete. A non sentirsi isole perché oggi nessuno può essere autosufficiente, il che non è voler entrare nel merito delle singole gestioni ma condividere. Solo una rete efficiente può dare risposte globali e adeguate alle esigenze odierne. La seconda priorità è puntare sempre più all’eccellenza e migliorare ulteriormente la formazione degli operatori, non solo dal punto di vista tecnico ma nell’approccio umano all’ammalato che, come ricorda il nostro fondatore, “è il nostro signore e padrone”.
Per questo non basta fornire competenze tecnico-scientifiche al massimo livello; occorre mettere tanto cuore nelle mani che curano.
Su quali priorità si concentrerà il suo impegno nei prossimi cinque anni?
Dobbiamo rendere più visibile la presenza dell’Aris nel tessuto sanitario del Paese nel quale occupiamo una posizione non certo di nicchia. Il 98% delle nostre strutture è accreditato e a contratto con il servizio sanitario nazionale o regionale; copriamo quasi l’80% della riabilitazione, sia per i bambini sia per gli anziani. Vogliamo essere interlocutori del ministero della Salute, sentirci attori in questo scenario. È inoltre urgente una maggiore attenzione alle periferie.