Al 39° convegno Caritas
La storia di Cosimo Rega, ex camorrista, ergastolano con 38 anni di carcere già scontati, attore e scrittore. E della moglie Gelsomina Fattorusso, che lo ha aspettato crescendo due figli e credendo nel loro amore. Ora sono nonni e sperano nella grazia del presidente. Lui vorrebbe incontrare i figli del primo uomo che uccise
Questa è una storia a due voci che ha nel bel mezzo un ergastolo. La storia di una caduta, di una vita travagliata, di un riscatto attraverso il teatro e di un amore duraturo che non si è fermato nemmeno davanti al muro del carcere a vita. L’eroe redento è oramai famoso grazie al cinema. Cosimo Rega, di Angri, paesino in provincia di Salerno, 38 anni di ergastolo ostativo già scontati, ex camorrista nel clan Alfieri Galasso e due omicidi alle spalle, nel terzo faceva il palo durante una rapina. La sua casa è il carcere di Rebibbia, dove i fratelli Paolo e Vittorio Taviani hanno girato il pluripremiato film “Cesare deve morire” con attori detenuti nel reparto di massima sicurezza. Cosimo interpretava Cassio: la passione per il teatro, il successo cinematografico e l’amore della moglie lo hanno salvato. L’eroina dietro le quinte, ma da poco ha cominciato anche lei a calcare le scene per caso, è la moglie Gelsomina Fattorusso. Si sono conosciuti quando lei aveva 12 anni e lui 16. Stanno insieme dal 19 marzo 1968 (ed è lui stranamente a ricordare la data), più 43 anni di matrimonio, due figli di 43 e 41 anni e tre nipotini. Li incontriamo su un divanetto arancione a Castellaneta Marina, in provincia di Taranto, dove è in corso in questi giorni il 39° convegno nazionale delle Caritas diocesane. Cosimo Rega ha potuto portare la sua testimonianza grazie ad un permesso premio. La moglie lo ha accompagnato, per godere di questi attimi rubati alla detenzione a vita.
La vera sentenza. Quando si sposarono lei era incinta del primo figlio. Quando lo arrestarono, della seconda. “Appena avuto l’ergastolo, trent’anni fa – racconta – dissi a mia moglie e ai miei figli che non c’erano avvocati che potevano assolvermi, che la mia condanna era giusta. Non c’è peggiore emozione di vedere negli occhi dei propri figli la delusione. Le dissi: tu lo sai che io non uscirò più, sei giovane, rifatti una vita. Era bellissima. Lei mi rispose: pensi che un muro di cinta possa dividere il nostro amore? Fu la vera sentenza”. Quel giorno Cosimo si pentì di essere camorrista, andando incontro anche al disprezzo e all’ostilità degli altri detenuti.
Il primo permesso premio. Da un po’ di anni Cosimo può uscire dal carcere alle 5 di mattina per recarsi all’Università Roma 3, dove lavora come portiere. Il pomeriggio è impegnato nella compagnia teatrale della cooperativa “Formula sociale” insieme ad altri detenuti, studenti e dipendenti di Roma 3. È attore e scrittore. Con Gelsomina ora si vedono tutti i giorni ma la sera Cosimo torna dietro le sbarre. Prima s’incontravano solo nei consueti colloqui in carcere, un ora a settimana, “per un totale di tre giorni l’anno”, precisa Cosimo, che conosce il valore assoluto e relativo del tempo. Come quando riuscirono finalmente, dopo decenni, a trascorrere di nuovo una notte insieme, durante il primo permesso premio nel 2011. “Andammo al santuario del Divino Amore accompagnati da don Roberto, uno dei cappellani di Rebibbia: prima in chiesa, poi a cena. Ero in ansia, tutti ci fotografavano con i telefonini, non ci lasciavano mai soli”. Finalmente in stanza, “mi sentivo male, ero goffo, le cose non andavano come mi ero sognato per tanti anni”. L’epilogo felice e bizzarro ci fu, ma non lo riveliamo. Lo scriverà forse Cosimo in una sua prossima, divertente, pièce.
“La mia vita eri tu”, gli dice oggi Gelsomina, guardandolo negli occhi con un sentimento semplice e inossidabile, nutrito nei lunghi anni della lontananza dai romanzi d’amore. “Ho sempre saputo che eri buono, sennò come facevo ad amare una persona come te?”.
“Crescere i figli, l’amore e la fede mi hanno dato la forza”.
“Ho sempre lavorato – racconta – prima in una fabbrica di pomodori poi al comune di Angri e ora al comune di Roma. Mi mancava più di tutto la vita matrimoniale, le passeggiate con i figli. Per loro non era facile, si vergognavano di avere un padre condannato all’ergastolo. Così preferivo non uscire. Leggevo libri”. Come Cosimo in carcere, che tra quelle mura si è formato una profonda cultura ricca di citazioni colte. Lui fatica a tenere a bada il suo talento istrionico, mentre si racconta, ma è lei a precisare molti aspetti della loro dura storia. L’ingresso nella camorra fu un gesto istintivo di ribellione contro la famiglia. “A volte mi chiedo come ho fatto ad uccidere – dice Cosimo -. Ero io quello? La prima volta uccisi un amico, un camorrista, quando mi vide, alzò le mani in alto come Gesù in croce. Non lo dimenticherò mai e non voglio giustificazioni”. “Era una maschera che ti mettevi”, ribatte Gelsomina.
La richiesta di grazia. Oggi Cosimo si sente un uomo nuovo e vorrebbe chiedere perdono ai figli del primo uomo che uccise, Giuseppe Parlati: “Può darsi che non accetteranno per non risvegliare il dolore. Ma devo almeno tentare. Sono consapevole di essere un ex camorrista. Purtroppo assassino lo resterò per sempre. Ma mi sento un uomo fortunato perché ho avuto la misericordia degli uomini. Quella di Dio non lo so”. Nel frattempo, dopo due richieste respinte presentate dalla moglie, la direzione del carcere sta chiedendo di nuovo la grazia per Cosimo Rega. Dovrà passare al vaglio della magistratura, del ministero e, infine, del presidente Sergio Mattarella. Gelsomina, dal canto suo, sta contando i mesi che la separano dalla pensione per essere una nonna felice, dopo 41 anni e 10 mesi di lavoro. “Se dovessi uscire le direi: prendiamo le valigie e andiamo via, in un’isola”. E lei: “Sì, dove vanno tutti gli anziani in pensione”.
Cos’è la libertà per Cosimo Rega? “E’ una parola troppo grossa. Non penso che esista. Credo esista la ricerca della libertà”. Intanto lo si potrà veder recitare dal 24 al 26 marzo al Teatro San Raffaele a Roma, con la compagnia del carcere “Stabile assai”: interpreterà Paolo Borsellino, il giudice ucciso dalla mafia.
“Il mio teatro è per la legalità. Nella mia vita c’è stato sempre qualcuno che ne ha fatto la regia. Ora voglio essere io il regista della mia vita”.