La nota
Chiunque si sia avvicinato in qualche modo ai gesti e alle parole di questo pellegrinaggio – così l’ha definito il Papa stesso – si è accorto di essersi avvicinato un po’ di più al Vangelo. Che è “buona notizia” proprio nell’ostinarsi a cercare le “buone notizie” nascoste ovunque, e che proprio così diventa spinta, incoraggiamento, speranza. E che rimane “buona notizia” anche quando smaschera il male, dandogli scacco matto, per così dire
Un Papa “disarmato” e senza auto blindata. Ha fatto il giro del mondo la notizia di questa decisione, pochi giorni prima della partenza di papa Francesco alla volta del Cairo; e inevitabilmente ha destato preoccupazione. Chissà, forse la stessa preoccupazione dei compagni di un altro Francesco, il Poverello di Assisi, che anche si era imbarcato per l’Egitto per incontrare il sultano: “armato” solo di un saio, di un sorriso, di una grande, incrollabile fede nel Cristo, principe della pace.
Poteva Francesco di Roma andarci diversamente, quasi 800 anni dopo?
Con il risultato di destare indubbiamente apprensione, ma anche con la volontà di ribadire con forza che l’unica preoccupazione che papa Francesco sente forte dentro di sé e a cui continuamente richiama le coscienze di tutti è
la preoccupazione della pace.
L’unica risposta possibile ad ogni provocazione, ad ogni violenza, ad ogni assurda persecuzione affermata ostinatamente in nome di un “dio” altrettanto assurdo, e volutamente scritto con la minuscola, l’unica risposta a tutto questo non può essere che il dialogo. Certo, la radice della violenza è evidentemente annidata nel cuore dell’uomo, forse addirittura nel cuore di ogni uomo; ma altrettanto si deve dire della radice del bene, di quel bene che ciascun uomo cerca per se stesso e per i suoi, anche se a volte in modo deviato. È proprio qui che mi pare di vedere la necessità del dialogo, che papa Francesco – e non solo lui – continuamente indica come unica strada possibile: dialogo tra le parti, dialogo tra le fedi, dialogo tra le nazioni (giusto il richiamo, durante il viaggio di ritorno, alla soluzione diplomatica di ogni crisi politica e militare), ma dialogo anche dentro il cuore di ciascuno di noi.
Perché ogni uomo, se è creato a immagine di Dio, ha dentro di sé la vocazione al dialogo e la capacità di distinguere ciò che è il vero bene da ciò che è evidentemente male.
Un dialogo onesto (ma in realtà non ne esiste uno che non lo sia, sarebbe una enorme contraddizione in termini) mi pare che abbia esattamente questo scopo: aiutare ciascun uomo a fare pulizia prima di tutto dentro di sé, a isolare quelle inevitabili spinte alla chiusura, all’egoismo e forse anche alla violenza che, in qualche modo, ciascuno si porta dentro, per dar voce a quella sete di bene e di senso che è altrettanto riconoscibile in ogni vita umana.
Papa Francesco non fa che indicare questo, partendo sempre dal positivo, dalla valorizzazione delle tracce di bene presenti in ogni uomo e in ogni cultura; dalla memoria della grande civiltà dell’Egitto, “terra di profeti e di alleanza” come l’ha definita, dal guardare all’Islam come ad una religione che sa parlare di pace, appello che emerge fin dal saluto tipico di ogni musulmano, “la pace sia con voi” e che il Papa ha fatto proprio in più riprese; dal ricordare che non siamo noi a “proteggere” Dio con il rischio di deviarne l’immagine secondo i nostri fini, ma che è lui a proteggere l’uomo e a metterlo nella condizione di costruire pace, a somiglianza del Creatore stesso della pace; dall’abbraccio con il papa copto Tawadros II, a conferma solenne del bisogno di comunione avvertito come sempre più urgente tra i cristiani:
chiunque si sia avvicinato in qualche modo ai gesti e alle parole di questo pellegrinaggio – così l’ha definito il Papa stesso – si è accorto di essersi avvicinato un po’ di più al Vangelo.
Che è “buona notizia” proprio nell’ostinarsi a cercare le “buone notizie” nascoste ovunque, e che proprio così diventa spinta, incoraggiamento, speranza. E che rimane “buona notizia” anche quando smaschera il male, dandogli scacco matto, per così dire.
Non è successo questo negli interventi di papa Francesco all’università di al-Azhar e al Palazzo del governo? Come era normale aspettarsi, il Papa ha condannato il terrorismo e ogni forma di violenza – e come poteva non farlo?
Ma a ben guardare, Francesco ha anche parlato chiaro all’Occidente: demagogia, armi costruite e commerciate che quindi prima o poi verranno usate, populismi, rischio di identità incapaci di aprirsi al nuovo, ripiegate su se stesse e quindi condannate a perdere vitalità, sono tutti temi che vanno al cuore di ciò con cui l’Occidente si sta confrontando.
Come a dire: attenzione, signori miei, le colpe di ciò che non va non stanno mai tutte da una parte sola. L’estremismo si combatte anche così: dicendoci le cose con chiarezza, riconoscendo ciascuno le proprie incoerenze, lavorando per quella conversione autentica che parte sempre da ciascuno di noi, mai dall’altro. E ricordando con forza, prima di tutto a noi stessi, che l’unico estremismo gradito a Dio è quello della carità: faticosa e apparentemente inutile a volte, ma sempre genuinamente rivoluzionaria.
(*) direttore dell’Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei