Vittime di mafie
Oggi abbiamo bisogno di “riportare al cuore” le testimonianze di chi per il bene della Patria o della comunità civile – comunque la vogliamo chiamare – ha rischiato e perso la vita. Come a dire che a volte c’è un bene più grande in gioco, non solo il mio interesse o quello del piccolo gruppo cui appartengo o sono legato da varie forme di relazione. Il bene di tutti è più grande del mio e va onorato per primo. Sì, sembra un linguaggio fuori tempo, quasi inattuale. Eppure le tante vittime dagli anni ‘70 fino ad oggi – drammaticamente lunga la lista di credenti e non credenti uccisi dal terrorismo per la propria coerenza – sono lì a “ricordarci” che a volte ci si deve schierare, perché ci sono momenti in cui un posto non vale l’altro e non va bene una scelta qualsiasi, a costo di rimetterci la vita…
“Quella mattina del 9 maggio 1978, ci fecero uscire da scuola molto prima del solito. Appena salito sul pullman che doveva riportarci a casa, chiesi all’autista: ‘Ma perché torniamo a casa così presto?’. ‘Hanno ucciso Aldo Moro’, fu la sua risposta”. Così Stefano, che allora frequentava le elementari, ricorda quel 9 maggio che scosse tutta l’Italia, anche chi allora era solo un bambino. In quello stesso giorno – questa volta non dal terrorismo brigatista ma dalla mafia – fu ucciso lontano dai riflettori dei mezzi di informazione anche Peppino Impastato. La concomitanza di questo duplice assassinio – quello di un politico e quello di un giornalista – convinse il Parlamento italiano nell’aprile del 2007 a fissare per il 9 maggio la “giornata della memoria delle vittime del terrorismo interno e internazionale e delle stragi di tale matrice”.
Come ha recentemente scritto il Presidente Mattarella, lo scopo di questa giornata è quello di “ricordare tutti coloro che sono stati uccisi dai terrorismi vecchi e nuovi”, perché questo è un nostro preciso “dovere morale”. Già, ricordare. Una virtù che non ci è così familiare, perché implica distaccarsi per un attimo dalle ansie del presente, smettere di lamentarsi, assumere uno sguardo retrospettivo, capace di riconoscenza per chi ci ha preceduto. Il ricordo può diventare anche farsa – lo sappiamo – e inutile ritualismo. Non è questo ciò di cui abbiamo bisogno ora nel nostro Paese. Ricordare etimologicamente significa “riportare al cuore”: non è un semplice esercizio di memoria, ma qualcosa che coinvolge il centro della vita e tocca in profondità quello che noi siamo e la nostra identità.
Oggi abbiamo bisogno di “riportare al cuore” le testimonianze di chi per il bene della Patria o della comunità civile – comunque la vogliamo chiamare – ha rischiato e perso la vita. Come a dire che a volte c’è un bene più grande in gioco, non solo il mio interesse o quello del piccolo gruppo cui appartengo o sono legato da varie forme di relazione. Il bene di tutti è più grande del mio e va onorato per primo. Sì, sembra un linguaggio fuori tempo, quasi inattuale. Eppure le tante vittime dagli anni ‘70 fino ad oggi – drammaticamente lunga la lista di credenti e non credenti uccisi dal terrorismo per la propria coerenza – sono lì a “ricordarci” che a volte ci si deve schierare, perché ci sono momenti in cui un posto non vale l’altro e non va bene una scelta qualsiasi, a costo di rimetterci la vita…
Quanti sono attivi nell’ambito dell’educazione e dell’informazione, dalla scuola alle associazioni educative sino ai giornali, hanno il “dovere morale” di tenere vivo nella società e nelle nuove generazioni il ricordo di questi uomini e donne che hanno pagato di persona e hanno lottato per qualcosa di bello. In realtà, forse tutto può essere ricondotto a tenere vivo in noi – e nei giovani – l’anelito alla bellezza. Non a caso, Peppino Impastato ebbe a dire: “Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità: si mettono le tendine alle finestre, le piante nel davanzale… E presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima. Ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione, ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore”. La bellezza salverà certamente il mondo, a patto che noi sappiamo averne cura e custodirla.
(*) direttore “L’Azione” (Vittorio Veneto)