Crisi/4

Grecia e Siria: “Abbiamo bisogno di tornare a sorridere”. La testimonianza di due giovani madri

Due storie di accoglienza nella Grecia che soffre. La crisi accomuna in un unico destino greci e migranti, in fuga da guerre e povertà. L’accoglienza non conosce lingua, etnia o religione, ma riconosce in tutti indistintamente lo stesso dolore. Nella sua grande difficoltà c’è una Grecia solidale che riesce a tendere la mano, il modo migliore per onorare la sua millenaria tradizione di Paese culla della democrazia. La storia di Popi e Fatima incontrate ad Atene

Popi e Fatima (nomi di fantasia) sono due giovani madri poco più che trentenni. Ateniese la prima e profuga siriana – di Qamishli, vicino al confine turco – la seconda, entrambe con delle figlie piccole da crescere e un futuro tutto da scrivere. Sono due dei tanti volti della crisi che da 7 anni stringe come un cappio la Grecia. Per sopravvivere Popi si appoggia alla Caritas locale beneficiando dei progetti di sostegno messi in campo, dal 2012, con la Caritas italiana. Fatima, invece, vive da un anno e mezzo circa nel “Neos Kosmos” (Nuovo mondo) Social House, un centro, nel quartiere omonimo di Atene, per l’accoglienza di persone e famiglie in grave stato di bisogno, in particolare profughi in fuga da guerre e povertà. Un’iniziativa nata grazie alla nunziatura apostolica in Grecia nel quadro del “Progetto Erice” (Emergenza rifugiati Europa centrale) al quale collaborano Caritas Italiana, Ass. Arca del Mediterraneo, Comunità Papa Giovanni XXIII e l’arcidiocesi di Atene.

Tornare a sorridere. “Prima della crisi si stava bene, i salari erano buoni. Io mi dividevo tra la cassa di un supermarket e un lavoro di promotrice finanziaria per una banca. Avevo scelto di prendere un appartamento in affitto”, racconta Popi. Poi, 7 anni fa, quando la crisi è esplosa in tutta la sua drammaticità, sono arrivati i primi tagli di stipendio, e di lì a poco i licenziamenti. “Non potendo più pagare l’affitto sono tornata dai miei genitori con la speranza che la situazione economica migliorasse”.

Cosa che non è avvenuta ma Popi non si è arresa e, grazie al sostegno della Caritas, oggi lavora come cuoca in un asilo. “Vivo con circa 300 euro al mese – dice – e non riesco a fronteggiare del tutto le spese e le bollette”. L’aiuto della Caritas è vitale per la giovane madre che ammette di “non aver mai vissuto in queste condizioni. Ho pensato anche di emigrare con mio padre in Germania oppure in Scozia ma sono rimasta ad Atene”. Questo di difficoltà economica è, per Popi, anche tempo di riflessione: “Ci siamo trovati in piena crisi senza quasi rendercene conto. Credo che i nostri politici ci abbiano tenuto nascoste le vere condizioni economiche in cui versava la Grecia. Oggi non possiamo fare altro che seguire le indicazioni di austerità della Troika.

Non siamo nella condizione di poter decidere da soli il nostro destino.

E lo stesso vale per le nuove generazioni e per quelle che non sono ancora nate. Tuttavia abbiamo nei confronti dei nostri figli la responsabilità di cercare altre strade per uscire dalla crisi. L’austerità non può essere l’unica via”. È difficile dare valore alla parola “futuro” quando si ha paura, “non per me ma per l’avvenire delle mie figlie. Non so a cosa andranno incontro.

Non voglio perdere la capacità di sorridere al futuro. Abbiamo bisogno di tornare a sorridere. Lo dobbiamo ai nostri figli che di tutta questa crisi sono solo le vittime e non i colpevoli”.

Dalla Siria alla Grecia. Fatima condivide con Popi lo stesso stato d’animo. Dal piccolo cortile interno del “Neos Kosmos Social House”, la giovane madre siriana rievoca la sua storia. Ad accompagnare il suo racconto un insolito silenzio. Solo il rumore che arriva dalla cucina, dove altre donne stanno preparando l’iftar, il pasto serale che rompe il digiuno islamico durante il Ramadan. Quello che dipinge è un bellissimo quadro della Siria prima della guerra scoppiata a primavera del 2011: “Un Paradiso!

La Siria era un Paese bellissimo dove si viveva tutti in pace e amicizia.

Cristiani e musulmani, chi parlava siriano, chi arabo, chi turco, non si badava alla religione,

eravamo tutti siriani, un solo popolo.

Siamo cresciuti tutti insieme, io e i miei vicini di casa, non c’erano differenze e contrasti, come fratelli e sorelle”. Fatima non si capacita di come il suo Paese sia caduto nel baratro: “Con le manifestazioni chiedevamo al Governo riforme e diritti. Poi sono spuntate le armi e la guerra. Sono arrivati da fuori a combattere e negli ultimi due anni e mezzo si è aggiunto anche Isis”. Nel 2013 la scelta drastica: “Partire. Abbiamo lasciato tutti i nostri averi, i nostri amici e familiari e, con mio padre abbiamo passato il confine turco illegalmente visto che le frontiere erano chiuse. Mio marito era già fuggito per la Germania, per preparare il nostro arrivo. Ho preso i miei figli, il più piccolo aveva, all’epoca, solo 40 giorni. Ho attraversato un fiume e camminato per ore in mezzo alle montagne e nei boschi prima di raggiungere una tendopoli dove siamo stati accolti.

In Turchia, a Izmir, sono rimasta per oltre due anni e mezzo, prima di arrivare in Grecia, nel febbraio del 2016. Ora aspetto di riabbracciare mio marito in Germania”. La violenza sembra seguirla anche in Europa:

“Quando sento di stragi compiute da Isis in Europa mi rattristo e prego Dio che tocchi il cuore di questa gente malvagia”.

Il cortile comincia a riprendere vita, i bambini si rincorrono, siriani, afgani, iracheni e altri ancora. Fatima li guarda e sorride. Poi riprende: “Qui in Grecia sto bene. Mi hanno dato un tetto, una sicurezza che prima, quando ero in tenda, non avevo.

Non potrò mai dimenticare tutta questa solidarietà. Mi hanno ridato la forza di sorridere e la capacità di credere nell’essere umano, nelle persone.

Ho trovato una grande famiglia che non mi fa sentire sola. I miei figli hanno fatto un lungo viaggio, forse troppo lungo per la loro giovanissima età. La mia speranza è che sia un viaggio verso un futuro migliore.

Prego Dio che sia così non solo per loro ma per tutte le famiglie in fuga dalla guerra e dalla povertà. Inshallah!”.