Iraq
Musica, bandiere, canti: così la capitale irachena, Baghdad, ha festeggiato l’annuncio dato ieri dal premier Haidar al Abadi della liberazione di Mosul. Più prudenti e meno propensi a cantar vittoria sono i cristiani sfollati da Mosul invitati dal premier iracheno a fare ritorno nelle proprie case. Davanti a loro le difficoltà di ricostruire non solo le abitazioni ma anche la fiducia nei confronti di quei musulmani, un tempo amici, divenuti fiancheggiatori dello Stato islamico e considerati traditori. Le testimonianze dell’arcivescovo siro-cattolico di Mosul, mons. Petros Mouche, e del sacerdote Behnam Benoka, attivo tra gli sfollati cristiani a Erbil
Musica, bandiere, canti: così la capitale irachena, Baghdad, ha festeggiato l’annuncio dato ieri dal premier Haidar al Abadi della liberazione di Mosul. Ci sono voluti nove mesi di battaglia prima di scacciare le milizie dello Stato islamico (Isis) dalla seconda città irachena dove nel 2014 Al Baghdadi dichiarò la nascita del califfato. L’esercito regolare sembra essere ancora impegnato in combattimenti nel centro di Mosul per eliminare le ultime sacche di resistenza dell’Isis. Secondo fonti militari sarebbero ancora tra 50 e 100 gli edifici controllati dai jihadisti. Alcuni di loro hanno con sé le famiglie, ma si teme anche per la presenza di molti altri civili che non sono finora riusciti a fuggire. Le operazioni delle forze governative, comunque, procedono a rilento anche per la necessità di bonificare le aree riconquistate da trappole esplosive lasciate dai miliziani del ’Califfato’ prima di ritirarsi. La situazione umanitaria è disperata, la Città vecchia, secondo fonti locali, è quasi totalmente distrutta. I militari iracheni affermano che al suo interno opossano trovarsi ancora 15 mila civili. 750 mila quelli messi in fuga da febbraio, inizio dell’offensiva. Per il Norwegian Refugee Council (Nrc) gli sfollati rappresentano circa la metà della popolazione di Mosul. Per ricostruire solo le infrastrutture essenziali della città si stima una cifra superiore al miliardo di dollari.
“I cristiani tornino”. “Una bella notizia che assume
un grande valore per il futuro del nostro Paese”
commenta mons. Petros Mouche, arcivescovo siro-cattolico di Mosul, Kirkuk e del Kurdistan. “Sto rientrando da Mosul – dice al telefono il presule – dove ho incontrato il primo ministro iracheno, Haidar al Abadi”. Durante l’incontro il premier ha affermato che
“i membri di tutte le comunità etniche e religiose, compresi i nostri fratelli cristiani, devono tornare nelle loro case a Mosul”.
“Vivere insieme fianco a fianco – ha aggiunto al Abadi – è la risposta naturale all’Isis. Le nostre diversità sono per noi fonte di orgoglio”. Un invito ben accolto dall’arcivescovo che pure non nasconde le difficoltà: “Nel nostro colloquio con al Abadi abbiamo affrontato diversi punti tra cui quello di come favorire il rientro dei cristiani, come garantire la sicurezza e offrire il necessario supporto per i bisogni della popolazione, a cominciare dall’acqua per finire alle scuole. Per il momento, purtroppo, il rientro della popolazione, non solo cristiana, è difficile e ci vorrà del tempo”.
Cristiani prudenti. “Mosul è stata liberata ed è
una vittoria di tutti gli iracheni.
Gli sfollati cristiani che sono ad Erbil hanno accolto con favore la notizia ma il sentimento che prevale tra loro è quello della prudenza mista a preoccupazione”. Da Erbil a parlare è padre Behnam Benoka, sacerdote siro-cattolico molto attivo tra le famiglie cristiane di Mosul e della Piana di Ninive sfollate nel campo Ashti 2 della capitale del Kurdistan. “Il problema – è la spiegazione – nasce intorno a quelle famiglie e a quelle persone che hanno aiutato l’Isis durante questi tre anni di occupazione. Si tratta di musulmani con i quali molti cristiani erano amici e dei quali oggi si fa fatica a fidarsi. Tanti nostri fedeli attendono di sapere quale sarà la sorte decisa dal Governo dei musulmani amici dello Stato islamico. Ai cristiani non bastano le rassicurazioni che arrivano da queste persone. Servirà tempo per ricostruire fiducia e sicurezza, per questo occorrono delle garanzie che tutelino le minoranze dall’eventuale ripetersi di fatti come questi.
I cristiani non vogliono essere traditi un’altra volta”.
Se per Mosul ci vorrà tempo perché i cristiani facciano rientro, nei villaggi cristiani della Piana di Ninive si conferma una certa tendenza al ritorno anche in questo caso “improntato alla massima prudenza anche perché – sottolinea il sacerdote – nessuno, né esercito né Governo, ci ha dato semaforo verde per tornare a vivere lì”. Per favorire il rientro si sta lavorando “per ricostruire o rimettere a posto le case distrutte grazie anche all’aiuto di organizzazioni umanitarie internazionali come Acs. La maggior parte delle famiglie è ancora qui a Erbil. Le stime parlano di 1200 famiglie nel campo ufficiale ‘Ashti 2’. Ce ne sono altre che vivono in affitto o nei compound ma non se ne conosce il numero”. “L’altro ieri a Qaraqosh sono tornate 320 famiglie – dice mons. Mouche -; ce ne sono delle altre in attesa perché hanno i bambini che aspettano la fine delle lezioni a Erbil dove sono riparate dopo l’invasione dello Stato islamico nel 2014”.