Messaggio del Papa
“Accogliere, proteggere, promuovere e integrare i migranti e i rifugiati” è il tema del messaggio di Papa Francesco per la Giornata mondiale del Migrante e Rifugiato che sarà celebrata il 14 gennaio 2018. Un messaggio ricco di proposte concrete, perché tutte le Chiese si impegnino a promuovere queste buone prassi. Intervista a padre Fabio Baggio, sotto-segretario della Sezione Migranti & Rifugiati del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale.
Tante buone pratiche per affrontare in maniera chiara e pragmatica il fenomeno delle migrazioni. Perché, se si vuole, le soluzioni si trovano. Dai visti umanitari o per motivi di studio ai programmi di sponsorship, dai canali umanitari ai ricongiungimenti familiari, dalla regolarizzazione di chi vive da tempo in un Paese di accoglienza senza documenti fino alla cittadinanza secondo lo ius soli. Sono le tante proposte e indicazioni contenute nel Messaggio di Papa Francesco per la Giornata mondiale del migrante e rifugiato che sarà celebrata il 14 gennaio 2018 in tutte le chiese. Il messaggio, che porta la data del 15 agosto ma è stato reso noto oggi, si intitola “Accogliere, proteggere, promuovere e integrare i migranti e i rifugiati”. Ne abbiamo parlato con padre Fabio Baggio, sotto-segretario della Sezione migranti & rifugiati del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale.
Il Papa ha già spiegato in passato il significato di questi quattro verbi. Cosa c’è di nuovo nel messaggio?
Nel messaggio vengono date indicazioni molto pratiche su come esplicitare questi verbi nel contesto attuale. Una serie di azioni e proposte che nascono dalle buone pratiche della Chiesa cattolica in diversi contesti. Buone pratiche come
ampliare canali legali e sicuri per tutti i migranti attraverso i visti umanitari, i programmi di sponsorship, i canali umanitari, i visti di studio per giovani rifugiati che vivono nei campi.
Soprattutto c’è un appello molto chiaro perché la Chiesa si impegni a proporre queste buone pratiche in tutto il mondo, con un coinvolgimento diretto da parte delle Conferenze episcopali e dei movimenti cattolici nel sensibilizzare le comunità ai due Global compacts (patti globali) che verranno firmati nel secondo semestre 2018 dalla comunità internazionale: uno sui migranti internazionali e l’altro sui rifugiati. In questo processo la Chiesa cattolica è chiamata ad essere più attivamente presente. Questi principi fanno riferimento alla dottrina sociale della Chiesa, ma si trasformano in buone pratiche e indicano soluzioni a problematiche presenti.
È quindi un messaggio molto concreto.
Certamente. È un messaggio che spiega nel dettaglio tutti quei canali che possono essere aperti o ampliati (per chi lo sta già facendo). Ad esempio
il canale della riunificazione familiare,
un diritto che la Chiesa ha sempre promosso, sarebbe una via interessante attraverso la quale molte persone potrebbero arrivare in modo sicuro e legale nel nostro Paese.
Cosa implica il verbo “proteggere” riferito ai migranti?
Il Papa accenna all’importanza di proteggere i migranti fin dalla partenza sia durante il transito, offrendo loro tutte le informazioni necessarie per decidere se partire o no, dove e come andare. Poi nel Paese di arrivo attraverso le missioni diplomatiche e quelle forme di protezione e assistenza fornite dalla società e dai governi locali, provvedendo a dare informazioni perché possano permanere in situazione regolare o regolarizzare la loro posizione.
E il verbo “promuovere”?
A livello di promozione si chiede il riconoscimento delle capacità e delle competenze dei migranti con
la convalida di titoli di studio e professionali,
perché queste persone possano offrire il meglio e possano approfondire la loro istruzione, sia secondaria, terziaria o all’università. Che possano veder riconosciute le loro professionalità in modo che possa essere un contributo e una opportunità di sviluppo per i Paesi che li ricevono.
Riconoscere, inoltre, ai migranti e ai rifugiati che permangono per lungo tempo un facile canale di nazionalizzazione.
Per chi è nei Paesi da 20 o 30 anni in permanenza irregolare si può cercare una facile soluzione, con formule di regolarizzazione straordinaria che in qualche Paese sono state già previste.
Un tema che riguarda la cittadinanza e – in Italia – l’acceso dibattito sullo ius soli…
La Chiesa italiana ha esplicitato molto chiaramente la posizione: ogni bambino che nasce deve avere una nazionalità, sia quella dei genitori (qualora lo prevedano e utilizzino i canali adeguati allo scopo) oppure riconosciuta dallo Stato. Come Chiesa cattolica continuiamo ad insistere sul fatto che
la cittadinanza non è un diritto necessariamente regalato. I diritti ius sanguinis e ius soli possono coesistere,
come già avviene in molti Paesi. Dipende semplicemente dalla volontà di mettersi in gioco. Una considerazione personale: in questi casi è sempre opportuno insistere non tanto sul diritto ma sul fatto che appartenere ad una nazione è una scelta personale e responsabile. Da questa scelta derivano una serie di doveri e responsabilità di partecipazione, di crescita, di sviluppo del Paese in cui si ha deciso di vivere.
Non è soltanto un passaporto ma è prendersi un impegno con un luogo, con un territorio.
Non è dire: “Puoi o non puoi”, ma: “Se vuoi, tieni presente che c’è una certa responsabilità da assumere”.
Ma c’è chi teme di perdere l’identità italiana od europea o si sente invaso…
Sono temi che riguardano le singole Conferenze episcopali. A livello globale la paura dell’invasione è data dalla non conoscenza e ignoranza rispetto a quelli che bussano alle porte. Dipende sempre dalle percezioni, che dal mio punto di vista personale debbono sempre essere considerate in modo molto serio, perché la percezione determina la scelta.
Bisogna lavorare moltissimo sull’educazione, sulla cultura dell’incontro, fornendo dati reali.
L’andare verso l’altro non è necessariamente naturale: nel bambino è molto più presente ma nell’adulto c’è spesso una remora perché nell’incontro con l’altro teme di perdere qualcosa. L’esperienza della storia – io sono uno storico – ci insegna invece che le civiltà sono nate proprio dall’incontro tra diversi popoli: nel momento in cui si sono aperti, non quando si sono chiusi.