Geopolitica
Quali potrebbero essere i risvolti geopolitici della recente visita di Papa Francesco in Colombia all’interno del Paese e rispetto alla crisi politica ed umanitaria nel vicino Venezuela? Ne abbiamo parlato con Niccolò Locatelli, coordinatore del sito di Limes, la rivista italiana di geopolitica.
La visita del Papa in Colombia può dare frutti positivi per riconciliare la popolazione e rendere concreti gli accordi di pace. Un po’ meno per quanto riguarda la soluzione della crisi nel vicino Venezuela, perché le dinamiche interne e internazionali sono più complesse. È la lettura del viaggio di Papa Francesco del giornalista Niccolò Locatelli, coordinatore del sito di Limes, la rivista italiana di geopolitica. Che analizza anche gli scenari possibili in Venezuela.
Il contributo del Papa agli accordi di pace tra governo e guerriglie sarà importante?
Il viaggio del Papa ha dato un tratto di legittimità al processo che sta portando avanti il presidente Juan Manuel Santos, di ricucitura con il movimento marxista-leninista delle Farc e l’altra guerriglia Eln, anche per guarire le ferite di un lungo conflitto. Il raggiungimento della pace è valso a Santos il premio Nobel e il Papa, che ha sostenuto il processo di pace fin dall’inizio, è andato in Colombia a dare il proprio marchio.
Il Papa è andato in Colombia anche per riconciliare la popolazione. Sarà ascoltato?
Sicuramente l’appello del Papa in un Paese cattolico come la Colombia non sarà inascoltato.
Il processo di pace è stato abbastanza tormentato negli ultimi anni e c’è una certa polarizzazione. Però l’impatto papale sarà netto, positivo e verificabile. Anche se il futuro dell’accordo di pace dipende molto da chi vincerà le prossime elezioni, non è detto che potrebbe tornare tutto in discussione.
Durante il viaggio Papa Francesco ha incontrato anche i vescovi del Venezuela, che lo hanno informato sul peggioramento della crisi. Dopo il tentativo di mediazione da parte della Santa Sede ora sta cambiando qualcosa?
Stiamo assistendo ad un lentissimo processo di allontanamento del Papa rispetto all’equidistanza e prudenza che finora lo ha caratterizzato. Si tratta di sfumature: ma nel tono del suo discorso, nelle parole che pronuncia, piano piano inizia a marcare le distanze dal regime. Il Papa ha accettato di spingere le due parti ad un dialogo che finora si è rivelato totalmente fasullo per esclusiva responsabilità del governo del presidente Maduro, interessato a protrarre la farsa della ricerca di un compromesso.
In realtà stiamo assistendo ad una deriva dittatoriale legata alla necessità di Maduro e delle forze armate di garantirsi il potere.
La situazione è talmente grave dal punto di vista politico, economico e sociale per cui penso sia utopico pensare che Maduro possa vincere elezioni democratiche in questo momento.
Sull’aereo il Papa ha ribadito che la Santa Sede, in merito al Venezuela, ha “parlato forte e chiaramente”.
Sì! Forte e chiaro, per quanto possa permettere il ruolo del Papa.
Il senso del messaggio è chiaramente una presa di distanza dal governo Maduro.
Già l’ultima volta che Maduro è andato a parlare con il Papa non sono uscite foto ufficiali rispetto alla volta precedente. Questo è significativo di una fiducia molto condizionata nei confronti del presidente. Ad esempio, nel caso di riavvicinamento tra la Cuba dei fratelli Castro e gli Usa di Obama la mediazione di Papa Francesco è stata molto importante e riconosciuta pubblicamente da entrambe le parti. Finora non sono mai arrivate dalla bocca del Papa parole di condanna inequivocabile ma dalla Santa Sede l’insoddisfazione nei confronti del governo di Caracas, ultimamente, è abbastanza chiara.
Sul Venezuela il Papa è sembrato anche dispiaciuto perché l’offerta di aiuto, tramite la mediazione del card. Parolin, non è stata accolta.
Il Papa è stato trascinato in una sorta di trappola. Nel momento in cui viene richiesta una sua mediazione certo non può tirarsi indietro. È venuto fuori, con il passare del tempo, come
l’obiettivo unico di Maduro fosse non tanto di dialogare per arrivare ad una soluzione
ma di dialogare per far scadere i termini previsti dalla Costituzione per un referendum che avrebbe portato alla decadenza anticipata della sua presidenza. In questo momento, complice l’Assemblea nazionale costituente completamente illegittima ed in mano ai fedelissimi del regime, la prospettiva di nuove elezioni presidenziali libere e trasparenti appare molto lontana, se non irrealizzabile. Anche lo scenario di una guerra civile è abbastanza lontano, anche se le armi ci sono già perché da anni il Venezuela ha un problema di violenza endemica. Il discorso è che in questo momento non c’è una opposizione armata che abbia l’intenzione e i mezzi per prendere il potere.
È possibile fare delle previsioni su come evolverà la crisi in Venezuela?
Oggi come oggi
è impossibile fare delle previsioni ma uno scenario più plausibile potrebbe essere una sostituzione di Maduro attraverso vie più o meno violente
ma sempre cercando il suo sostituto o all’interno del gruppo chavista che lo sostiene o una figura di transizione che però non tocchi i privilegi accumulati negli ultimi 15 anni dalle forze armate. Perché quello è il nocciolo della questione:
le forze armate non sono più soltanto un esercito ma sono un attore dell’economia, un protagonista politico
attraverso vari esponenti militari che occupano cariche ministeriali e governative. Difficilmente vorranno rinunciare ai privilegi ottenuti. Quindi a quel punto la figura di Maduro, che si è dimostrato finora molto abile nel garantirsi una permanenza al potere malgrado la situazione stia precipitando sotto tutti i punti di vista, conta relativamente. Perché il quadro politico venezuelano propende verso la deriva dittatoriale.
Quindi a cosa potrebbe servire una mediazione vaticana?
È importante per quanto riguarda la vita di tutti i giorni a livello interno. Ma è chiaro che la soluzione non può passare soltanto attraverso il Vaticano.
Per un cambiamento importante nelle condizioni del Venezuela devono smuoversi anche gli attori esterni, in maniera più decisa.
Perché i Paesi della regione non sono andati oltre le condanne verbali. Non hanno sanzionato il Paese né interrotto gli scambi commerciali con il Venezuela. Gli Usa stanno intraprendendo misure più forti che potrebbero avere un certo impatto ma non ci sarà un intervento militare come annunciato da Trump: perché non è nell’interesse degli Stati Uniti e non avrebbe senso. Dall’altra parte ci sono Russia e Cina che continuano a sostenere Maduro perché vedono in lui un alleato importante, anche in chiave anti-statunitense. Poi c’è Cuba che ha un legame ideologico, petrolifero e di intelligence molto forte.
Cuba rimane un Paese chiave per tentare di risolvere questa crisi.
Il Papa è molto preoccupato dell’emergenza umanitaria in Venezuela, della mancanza di cibo e medicine. Come se ne esce?
Dovrebbero migliorare le condizioni economiche che determinano l’emergenza umanitaria. Maduro ha dimostrato in questi anni di non essere in grado di migliorare la situazione, anzi l’ha peggiorata. Il prezzo relativamente basso del petrolio – chiave dell’economia del Paese – è ancora troppo basso per permettere una ripresa. La situazione è destinata a rimanere abbastanza negativa se non a peggiorare fino a quando non verranno prese misure diverse. Ma sarebbe necessario intaccare anche i privilegi delle forze armate.
L’ingresso di aiuti umanitari quindi non basterebbe?
Il problema comune degli aiuti umanitari è che sono uno strumento nelle mani del governo. Già adesso le forze armate distribuiscono una serie di prodotti a prezzi calmierati. Gli aiuti diventerebbero un ulteriore strumento nelle loro mani. Perché finirebbero nel mercato nero oppure sarebbero oggetto di una compravendita.
Possono lenire l’emergenza ma non sono risolutivi.