Migranti
Prendere distanza dalla comune umanità è il pericolo nascosto che sta dietro l’allontanamento coatto, come un larvato (non tanto larvato) razzismo. Dopo le nuove disposizioni cittadine, la tentazione è lasciare la mia casa in centro città, ubicata accanto a scuole, ville e giardini, e trasferirmi in periferia. In fondo anch’io sono un po’ straniera
La mia pelle è bianca, i miei capelli biondi, i miei occhi azzurri. Il mio aspetto rivela, prima del mio parlare, le mie origini normanne. Ma, un colore di pelle, esclude forse che non abbia anche altro sangue? Sono figlia di tutte le migrazioni e dominazioni che hanno reso la mia terra un crogiolo di etnie, quasi un unicum che la fanno straordinaria. Ma sono anche nipote, sorella e cugina di migranti economici.
Il padre di mio nonno, ad esempio, tentò fortuna negli Stati Uniti d’America. Partì, come altri milioni di italiani, alla ricerca di un futuro migliore. Ritornò quasi subito. Giunto ad Ellis Island non superò le visite mediche e lo rimandarono in Italia con la stessa nave che lo aveva portato a New York.
Mio nonno, nel 1952, emigrò in Belgio. Non l’ho conosciuto, ma della sua esperienza in Belgio restano le fotografie che mandava a mia nonna. Fotografie in bianco e nero, come era il suo quotidiano nelle miniere di carbone. Immagini in cui era insieme ai compagni di lavoro o in qualche centro ricreativo in cui gli italiani si ritrovavano la domenica. In quelle sbiadite foto sorrideva, alleggerendo i mille e mille chilometri che lo separavano dalla famiglia.
Mia sorella per lavorare è dovuta andare via. Dall’età di 27 anni vive in giro per l’Italia e, da una decina di anni, in Emilia Romagna, terra che sa essere accogliente solo dopo aver compreso che, dietro ad un accento meridionale, può trovarsi una brava persona. Una laurea e un posto di lavoro di tutto rispetto, a volte non bastano per essere riconosciuti nella dignità. Mio cugino ha 37 anni e per quattro anni della sua vita, lasciando moglie e figlio appena nato, ha vissuto in Algeria. Le grandi infrastrutture si realizzano ancora in Nord Africa e le società italiane ormai lavorano più all’estero che in Italia.
Potrei continuare l’elenco anche con i conoscenti, gli amici, i vicini di casa, gli ex compagni di scuola. Credo che ogni famiglia abbia, nel suo piccolo, un’esperienza di migrazione. Una storia di riscatto e miglioramento delle proprie condizioni di vita. Una storia di solitudine e sofferenza, non credo diversa da quella dei tanti giovani che arrivano sulle nostre coste e che permangono in attesa di riconoscimento di uno status. Cosa rende le loro storie diverse da quelle dei miei parenti? A prima vista nulla, ma poi riflettendoci qualcosa c’è… il colore della pelle.
Il colore della pelle? Nel 2017? Se fossero bianchi, gialli o rossi, si avrebbero gli stessi timori? Se fossero russi e cinesi che portassero denaro da investire o fruissero del turismo? Per australiani, messicani o argentini si penserebbe di deliberare che gli alloggi che li ospitano debbano trovarsi lontani da “luoghi sensibili” come le scuole e gli edifici pubblici, i parchi, le ville e i giardini comunali?”. Si penserebbe che la “allocazione di strutture nel centro storico della nostra città, già saturo della numerosa presenza di immigrati extracomunitari, di fatto creerebbe una comunità di extracomunitari in antitesi con la comunità locale, con rischio sociale, svilendo anche il principio dell’accoglienza e costituendo un grave vulnus al processo di integrazione”? Potremmo dire lo stesso dei preti di “colore”, delle suore africane, filippine, latino americane che in non poche cittadine condividono fede e carità? Potrebbe un civico consesso deliberare in questo modo?
In due comuni della nostra Provincia, Porto Empedocle e Favara, i consigli comunali, hanno deliberato per la “ghettizazzione” dello straniero.
Nulla importa se è un minorenne, che ha vissuto l’inferno delle carceri libiche, che non parla l’italiano, che non conosce altri che i suoi compagni di viaggio, che vede tutto quello che lo circonda per la prima volta… lui è extracomunitario di quelli che arrivano con i barconi e quindi dobbiamo tenerlo lontano, il più possibile, dalle nostre case, dalle nostre scuole, dai nostri luoghi di ritrovo. È sempre triste quando, in famiglie come fra le città, fra persone di diversa condizione si prendono le distanze. Ancor più tragico se si ritiene che basti sottrarre dal personale sguardo l’altro che, con la sua vita differente, interpella – il morente, il reo, il richiedente asilo – perché il problema sia risolto.
La questione dei centri di accoglienza è una vicenda complessa: per leggi e competenze disparate, per ordinanze e cavilli, per interessi economici che nulla hanno a che fare con il dramma incolpevole dei migranti. Drammatico sarebbe se la determinazione di collocarli comunque altrove (in periferia) rispetto a dove attualmente si trovano (in centro), faccia il paio con il criterio assoluto dettato dal dio denaro: la perdita (presunta) del guadagno. Sotto la bandiera universale del guadagno, che tutti ci accomuna, rischiamo di prendere distanza siderale dalla comune umanità, distinguendoci in agrigentini a “denominazione d’origine controllata”. E poi favaresi doc, empedoclini doc. Per distinguerci poi, di conseguenza, per quartieri doc, condominio doc, famiglie doc. E, alla fine, restare ciascuno solo con se stesso ma doc.
Prendere distanza dalla comune umanità è il pericolo nascosto che sta dietro l’allontanamento coatto, come un larvato (non tanto larvato) razzismo. Dopo le nuove disposizioni cittadine, la tentazione è lasciare la mia casa in centro città, ubicata accanto a scuole, ville e giardini, e trasferirmi in periferia. In fondo anch’io sono un po’ straniera. Ma ci si può disimpegnare dal vivere per realizzare una umanità degna di questo nome, una umanità doc?
(*) “L’Amico del Popolo” (Agrigento)