Società
Una recente ricerca dell’Iref, durata circa quattro mesi sui social network, ha chiesto a circa 2.500 giovani italiani, residenti in Italia e all’estero, e a giovani di seconda generazione, presenti nel nostro Paese, qual è il loro atteggiamento nei confronti del lavoro. Dai risultati emerge un sistema che li aiuta poco a inserirsi nel mondo lavorativo e molto probabilmente non si pone grandi problemi nello sfruttarli
Ci interroghiamo di solito sulle condizioni di lavoro dei giovani, a ragione, vista la situazione. Ma siamo meno interessati a comprendere cosa loro pensano del lavoro. Così proiettiamo il nostro modo di vedere le cose sui comportamenti da loro assunti per affrontare un mondo della produzione che muta molto velocemente.
La ricerca “Il ri(s)catto del presente”, condotta dall’Iref (Istituto di ricerche educative e formative), si concentra sul valore del lavoro per i giovani. Li ha coinvolti in un’indagine, durata circa quattro mesi, sui social network. Tramite un questionario è stato chiesto a circa 2.500 giovani italiani, residenti in Italia e all’estero, e a giovani di seconda generazione, presenti nel nostro Paese, qual è il loro atteggiamento nei confronti del lavoro.
Quest’indagine non ha quindi la pretesa di descrivere il rapporto tra i giovani e il mercato del lavoro. Per questo, ci sono già numerose ricerche, suffragate dai dati Istat, che ci raccontano delle difficoltà d’inserimento dei giovani, della scarsa corrispondenza tra inquadramenti professionali e titoli di studio, dello stato di precarietà e dello scoraggiamento di una porzione della popolazione giovanile che ha smesso di studiare e di cercare lavoro.
Lo scopo è capire il valore del lavoro per i giovani.
Il primo risultato che pone interrogativi è la disponibilità dei giovani a derogare ad alcuni loro diritti. Osserviamo che molti si dichiarano disponibili a rinunciare alle ferie, a prolungare i loro orari, a lavorare i giorni festivi e così via. Però hanno una motivazione.
Le forme di deroga sono diverse.
Molti tra i partecipanti sarebbero risposti a derogare al proprio tempo per fare il lavoro dei sogni (Fig. 1): il 40,4% sarebbe disposto a lavorare molte ore più degli altri e il 41,3% a lavorare anche da casa, il 36,6% occuperebbe anche il tempo libero, pur di raggiungere la propria meta professionale.
La seconda forma di deroga è di ordine salariale: il 33,2% degli intervistati sarebbe disposto a essere pagato poco, il 31,2% a lavorare gratis per un periodo. Anche la disponibilità a offrire lavoro gratuito è abbastanza alta e riguarda circa un intervistato su tre. Relativamente minore (22,9%) è invece la quota di giovani che si dichiarano disposti a lavorare anche di notte.
Ci sono poi differenze nella disponibilità a derogare tra i giovani che lavorano all’estero e i giovani rimasti in Italia, come c’è differenza tra i giovani laureati e gli altri. In entrambi i casi i primi sono meno disponibili, molto probabilmente, perché essi hanno investito di più per raggiungere un obiettivo professionale.
Per comprendere questo atteggiamento di rinuncia dovremmo capire che
i giovani sanno di vivere una condizione di continua precarietà.
Il lavoro che affrontano al momento, potrebbe – e molto spesso lo è – essere provvisorio. Quindi non hanno problemi nel rinunciare, per un periodo, ad alcuni diritti, dato che quella che affrontano è un’esperienza a termine. Sanno che il processo di inserimento lavorativo è lungo e, quindi, ci vuole pazienza.
Non dobbiamo, però, dimenticare che c’è anche una parte di giovani che vive l’esperienza del lavoro come attività per raggiungere l’autonomia, senza l’aspirazione a coltivare una propria passione per il lavoro, il quale in questo caso diventa marginale, non importante. Ciò che interessa è altro, è lì dove possono esprimere loro stessi.
Qui s’intravede la grande incongruenza dell’attuale scenario. Perché per i giovani il lavoro avrebbe un valore alto.
Lo si comprende osservando le risposte sulla soddisfazione del lavoro. Questo per essere buono deve rispondere, secondo i giovani, a bisogni che rientrano nella sfera empatico-espressiva, piuttosto che in quella materiale.
Per il 70% degli intervistati avere un buon lavoro significa due cose:
avere la possibilità di esprimere sé stessi e avere tempo libero per curare la vita privata.
In seconda battuta, essere indipendenti (62,3%) e avere buoni rapporti con colleghi e superiori (61,5%). Ad oltre venti punti percentuali di distanza ci sono guadagnare molti soldi (39,3%) e, con il 35,1%, avere la garanzia di non essere licenziati.
Da una parte, i giovani derogano a diritti per raggiungere un lavoro, dall’altra sanno riconoscere la dimensione relazionale del lavoro.
Si avvicina la 48ª Settimana Sociale dei cattolici, nell’Instrumentum laboris si accenna alla descrizione con cui Primo Levi dipingeva il muratore che detestava i nazisti, “ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale”.
I giovani partecipanti alla ricerca hanno consapevolezza che il lavoro è espressione della nostra dignità, ma anche impegno, sforzo, capacità di collaborare con altri, come si dice nel documento. Quello che appare è un sistema che li aiuta poco a inserirsi nel mondo lavorativo e molto probabilmente non si pone grandi problemi nello sfruttarli.