Verso il voto
Conviene non accontentarsi di chi placa la paura di oggi, cancellando a colpi di slogan i mostri che più inquietano. Dalle paure del Paese si riparta. Sono da ascoltare e raccogliere: ma per provare a superarle, non per cavalcarle quanto basta a far sbarrare una casella su una scheda
Le elezioni in Germania erano attese come termometro dell’aria che tira. E l’aria è arrivata più fredda del previsto. Anche per Angela Merkel che ha dichiarato subito: “Poteva andare meglio”. Lei resta in sella, per la quarta volta, ma il destriero d’Europa scalpita scosso da nuovi fremiti. Il partito di destra, l’Afd, è balzato dal 4,5% del 2013 al 13% del 2017. I socialdemocratici di Schulz, incassando un meno 8%, sono all’opposizione.
Che cosa dice questo voto alla Germania e che cosa all’Europa e a noi?
Alla Germania dice che una parte dei votanti non ha gradito la politica di apertura all’immigrazione che la cancelliera ha effettuato dal 2015. È nello stesso periodo, infatti, che la destra ha intrapreso la rimonta. Il che significa anche che il no all’accoglienza pesa sul vincere e sul perdere. E se anche in Francia, lo scorso maggio, la storia ha registrato sui suoi annali la vittoria dell’europeista Macron, non va dimenticato che un francese su tre stava con Marine Le Pen e la sua politica anti-immigrazione.
Del resto la stessa Merkel, che accolse i rifugiati siriani, ad urne ancora calde ha indicato nella lotta all’immigrazione illegale il primo obiettivo della nuova compagine di governo.
Romano Prodi, ospite a Pordenone di un’anteprima della Settimana sociale – che si terrà in diocesi a metà novembre -, ha giudicato il voto tedesco un allineamento a quanto accade in tutta Europa. La destra avanza. Anche per la diffusa incapacità della sinistra di rispondere alla crisi di economie e famiglie.
Ma l’effetto collettivo pesa sull’Unione: nei suoi stati pare non conveniente, a chi cerchi consenso, parlare di accoglienza. In Francia, Spagna, Italia e ora anche in Germania l’immigrazione sposta voti.
Naturale interrogarsi sull’Italia dove, senza una data in calendario, i vari leader vanno già disegnando prospettive. Se le elezioni fossero solo una gara a chi vince e chi perde, la traiettoria vincente sarebbe palese. Ma in palio c’è molto di più di un trofeo da innalzare sotto la curva dei propri tifosi.
Guidare un Paese è avere la possibilità di provare a migliorare il presente dei propri connazionali, disegnare il domani delle generazioni. Con tutta la concretezza di chi conosce, e bene, necessità e paure della propria gente. Ma anche con la coraggiosa ambizione di andarvi oltre, di portare i cuori oltre gli ostacoli. Che non vanno impallinati per far prima.
L’accoglienza è un discrimine su cui tanto si gioca. È un bivio: c’è chi propone muri e rimpatri, che evitino gli ingressi e lascino inalterati gli equilibri esistenti; chi cerca vie nuove, quanto difficili e impopolari, nel rispetto di ogni uomo.
La paura è istinto irrazionale che la ragione può superare. Insieme a uno sforzo e un disegno comuni. Se venissero condivisi livello europeo, non solo le singole persone, non solo le singole nazioni, ma l’Europa tutta ne trarrebbe valenza, credibilità e un peso nuovo sullo scenario di un’unione oggi frammentata e di un mondo fragile e imprevedibile.
Farsi forti a partire dalle difficoltà costa uno sforzo di progettazione nuovo. Eppure, come sostengono in questi giorni voci autorevoli, è questa la via.
Conviene non accontentarsi di chi placa la paura di oggi, cancellando a colpi di slogan i mostri che più inquietano. Dalle paure del Paese si riparta. Sono da ascoltare e raccogliere: ma per provare a superarle, non per cavalcarle quanto basta a far sbarrare una casella su una scheda.
(*) direttrice “Il Popolo” (Concordia-Pordenone)