Viaggio apostolico

Papa in Myanmar. Lo attende uno scenario interno complesso

Con oltre 52 milioni di abitanti, di cui l’85% a maggioranza buddista e 135 etnie e 12 Stati etnici con confitti mai risolti o che si sono inaspriti – come nel Rakhine con la crisi della minoranza musulmana Rohingya – il Myanmar si trova oggi in un momento storico estremamente delicato per la vita del Paese e per le ricadute geopolitiche. La visita di Papa Francesco dal 27 al 30 novembre vi punterà i riflettori dei media internazionali.

(da Yangon) – La vita scorre apparentemente serena nei mercati, nei templi e nelle vie caotiche del centro di Yangon, con la cupola d’oro rivestita di 4.000 brillanti della Shwegadon Paya, la più sacra pagoda buddista del Myanmar, che vigila sulla città e i suoi 6 milioni di abitanti. Le donne sempre sorridenti con la caratteristica thanakha sul viso – una polvere speciale ricavata da un legno pregiato che usano come make up e per proteggersi dal sole – gli uomini in longyi, il panno di cotone che intrecciano intorno alla vita come fosse una gonna al posto dei pantaloni, i monaci con gli abiti bordeaux e le monache in rosa. Qui il ritmo e le atmosfere sono (ancora per poco) quelle della vecchia Asia, anche a causa di 54 anni di regime militare e chiusura al mondo. Tra le chiassose automobili sugli ampi vialoni lasciati in eredità dalla dominazione britannica sfilano anche vecchi risciò stile cinese, si intrecciano etnie, lingue e religioni diverse, c’è una popolazione giovane indaffarata tra telefonini low cost e desiderio di migliori opportunità economiche, modernità, più democrazia e libertà. Con oltre 52 milioni di abitanti, di cui l’85% a maggioranza buddista e 135 etnie e 12 Stati etnici con confitti mai risolti o che si sono inaspriti – come nel Rakhine con la crisi della minoranza musulmana Rohingya – il Myanmar si trova oggi in un momento storico estremamente delicato per la vita del Paese e per le ricadute geopolitiche. La visita di Papa Francesco dal 27 al 30 novembre, che proseguirà poi in Bangladesh fino al 2 dicembre, punterà qui i riflettori dei media internazionali. Arriverà in questo Paese con un compito difficile per i risvolti che ne potranno conseguire, anche se il tono della visita, come specificato più volte, sarà specificatamente pastorale e di sostegno alla piccola comunità cattolica (1% della popolazione), per riportare pace, amore e armonia nel Paese.

Attese e timori. Il governo democraticamente eletto a fine 2016 con la vittoria schiacciante della Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi – costretta a venire a patti con l’esercito che ancora presiede i ministeri più strategici -, avrà l’occasione di dare una buona immagine di sé al mondo. Con una buona dose di timori per l’argomento tabù dei Rohingya (anche i vescovi hanno invitato il Papa a non parlarne), sui quali la comunità internazionale sta esercitando una grossa pressione. Il Paese più ricco dell’Asia, con i suoi preziosi giacimenti di oro, giada, pietre preziose, petrolio, gas naturale, risorse idriche e foreste, attira gli interessi e le cupidigie di molti al potere e delle multinazionali straniere, come pure il sottobosco di chi fa affari loschi con il riciclaggio di denaro sporco e il traffico di droga nelle regioni di confine. Dopo una generale euforia degli imprenditori stranieri subito dopo le prime elezioni libere, ora gli investimenti in infrastrutture e servizi stanno calando perché non c’è ancora una vera stabilità politica, la burocrazia e le limitazioni di movimento in alcuni Stati dove vivono le minoranze sono pesanti, manca spesso l’energia elettrica, perfino a Yangon.

I rischi per la transizione democratica. Tra le preoccupazioni maggiori, il rischio che il calo di credibilità e sostegno internazionale nei confronti della “lady” (così chiamano affettuosamente Aung San Suu Kyi) possa mettere in difficoltà il suo governo e delegittimarla agli occhi dell’opinione pubblica, creando un vuoto di potere che andrebbe di nuovo a favore dei militari, che ancora esercitano (anche se in apparenza non si vede) un grosso controllo sociale modello cinese. Da queste parti il nome Rohingya è impronunciabile perché scatena vecchi rancori e diffidenze: i birmani li considerano un popolo proveniente dal Bangladesh che ha occupato le loro terre, per questo, come altre minoranze non hanno i documenti e  vengono discriminati nell’accesso al lavoro, alla scuola, ai servizi. La paura maggiore è che questa crisi possa dare adito ai movimenti nazionalisti buddisti appoggiati dall’esercito, di riprendersi completamente il potere, mettendo in gioco la difficilissima transizione democratica. C’è inoltre un grosso punto interrogativo sulla successione della “lady”, che ha già 72 anni ma non ha ancora individuato leader carismatici che prima o poi dovrebbero prendere il suo posto. Lei si sta muovendo con cautela e come una equilibrista tra le pressioni interne e internazionali. Nonostante le raccomandazioni della commissione sul Rakhine presieduta da Kofi Annan non siano state ben accette dalle parti in causa, è probabile che prima o poi il governo farà entrare la missione di osservatori come chiedono le Nazioni Unite per constatare le effettive violazioni dei diritti umani. E farà rientrare nel Rakhine le centinaia di migliaia di famiglie rifugiate in Bangladesh, facendo attenzione al rischio di infiltrazioni terroristiche, l’altro grande timore. Quello che certamente non serve oggi al Myanmar sono le minacciate sanzioni internazionali, che avrebbero effetti negativi solamente sulla popolazione, l’80% in condizione di povertà dignitosa ma generalizzata. Le élite continuerebbero a fare tranquillamente i loro ricchi affari.