Holy Land Coordination 2018
Al di qua e al di là del muro che li divide, giovani israeliani e palestinesi crescono coltivando il sogno di conoscersi, primo passo per un futuro di pace. Lo hanno raccontato ai vescovi di Usa, Canada, Ue e Sud Africa, membri dell’Holy Land Coordination, in questi giorni in Terra Santa per il loro annuale pellegrinaggio di solidarietà.
(da Beit Jala) “La dignità è l’obiettivo, l’istruzione è il mezzo”: è lo slogan stampato sulle felpe blu della scuola del Patriarcato latino di Gerusalemme di Beit Jala che “fieramente” rivendica di essere la prima scuola latina in Palestina, fondata nel 1854 per “portare il messaggio di fede, educazione e istruzione a tutti, senza badare a fede, classe sociale e sesso”.
Beit Jala è un villaggio palestinese cristiano situato alle porte di Betlemme, posto su un territorio montuoso pieno di ulivi centenari e frutteti, che comprende anche la vallata di Cremisan – ricca di vigneti – spaccata in due dal muro di separazione israeliano che trancia col cemento la terra di 58 famiglie locali. Un vero guanto di sfida a chi, da oltre 160 anni, educa i giovani “non a lottare contro gli altri ma a cooperare per costruire un futuro fatto di convivenza, di rispetto, di diritti e di dignità”. Tutto con un solo strumento, l’istruzione. I protagonisti di questa storia secolare oggi sono i 900 studenti delle 31 classi della scuola, tutti di età compresa tra i 4 e i 18 anni che il 15 gennaio hanno ricevuto la visita dei vescovi di Usa, Canada, Ue e Sud Africa, membri dell’Holy Land Coordination, in questi giorni in Terra Santa per il loro annuale pellegrinaggio di solidarietà. Ad accoglierli padre Iyad Twal, direttore generale delle scuole del Patriarcato latino di Gerusalemme, una rete di 44 istituti sparsi tra Palestina (13), Israele (6) e Giordania (25), con circa 20mila alunni in totale.
Dalla parte della pace. “Nelle nostre scuole non solo formiamo gli studenti in vista di un lavoro ma li educhiamo perché diventino persone di speranza, di amore e di giustizia – ha spiegato padre Twal –. Insegniamo ai giovani di varie fedi, cristiani, musulmani, drusi a vivere in pace e in mutuo rispetto. Insieme si sconfigge il fanatismo religioso. Accade a Nablus, dove su 615 alunni solo 71 sono cristiani, a Gaza, a Al Rameh, al confine con il Libano, dovunque insegniamo a ricostruire la speranza prestando cura e attenzione ai più piccoli”. Il dialogo viene insegnato a tutto campo anche ricorrendo alle nuove tecnologie. A Beit Jala gli studenti organizzano delle video conferenze con i loro colleghi di scuole di tutto il mondo per parlare e condividere ogni genere di argomento. Ma se è facile parlare con coetanei al di là dell’oceano, più difficile risulta parlare e ritrovarsi con quelli più vicini, che si trovano al di là del muro, i ragazzi israeliani.
“Non si tratta di essere pro-Palestina o pro-Israele ma di stare dalla parte della pace, del dialogo, del rispetto
– ha sottolineato padre Twal – E questi sono valori che possono essere insegnati. Non ci è permesso di non sperare in un futuro migliore per questa terra e per i popoli che la abitano”.
Il sogno di conoscersi. Ma qualcosa sembra muoversi nella giusta direzione. Parlando con i vescovi dell’Holy Land Coordination i ragazzi più grandi, “quelli dell’ultimo anno, della maturità”, hanno raccontato il sogno “di uscire fuori dal muro che impedisce loro di muoversi, di recarsi all’estero per gli studi universitari, di conoscere anche giovani israeliani”.
“Non ne conosciamo uno – hanno detto in coro – e a risolvere il problema non bastano i social network. Ci sono momenti in cui serve guardarsi, ascoltarsi, senza digitare sulle tastiere o stare davanti a un video”.
Anche così un presunto “nemico” può diventare un amico. “La religione non è un problema – hanno spiegato – non lo è mai stata nella nostra scuola”. Palestinesi cristiani che fanno festa con i loro amici musulmani e viceversa, durante l’anno scolastico. Un’amicizia che nasce tra i banchi di scuola e che si cementa all’esterno, nella speranza che diventi collante di una società sempre più in difficoltà economica, sociale e politica. Padre Twal non lo dice, ma la speranza che le nuove leve politiche, preparate, aperte e tolleranti, nascano anche dalle scuole cristiane viene coltivata con cura. Per il direttore generale delle scuole del Patriarcato latino di Gerusalemme mai come adesso
“la via della pace e della giustizia passa per i giovani e l’educazione”.
La pensano così anche i giovani studenti di legge che frequentano il corso di “multiculturalismo e diversità” alla Hebrew University di Gerusalemme. Tra i loro impegni anche quello di seguire casi legali per persone che hanno subito discriminazioni. “Il razzismo – ha detto Yaara Mordecai incontrando i vescovi all’ateneo – è uno dei problemi della società israeliana innescato anche da motivazioni religiose oltre che etniche. È necessario eliminare le incomprensioni per poter aiutare la nostra società a crescere”. Per il suo amico e collega Ariel Ilyz, “esiste un problema di comunicazione, palestinesi e israeliani non parlano la stessa lingua, che prima non esisteva”. La costruzione del muro è la causa. Secondo Shira Gushpantz “prima del muro di sicurezza si muoveva tanta gente, molti palestinesi venivano a lavorare a Gerusalemme e in Israele. Molti parlavano sia arabo che ebraico, si comunicava. Dopo il muro tutto si è fermato. Anche i contatti, le possibilità di conoscersi e di vedersi non più quelle di una volta. Il muro ci ha resi come nemici”. A confermarlo anche Rawan Ziedan, araba israeliana, di fede musulmana, anche lei del corso di “multiculturalismo e diversità”: “Non è facile per un’araba israeliana vivere tra discriminazioni e forme di razzismo.
Ma al di qua e al di là del muro c’è una generazione nuova che cresce e che non la pensa così. Pensare ad un futuro di convivenza non è impossibile. Serve conoscersi di più e meglio”.