Giorno della memoria

Liliana Segre: lo sguardo altrove

Nell’ottantesimo delle leggi razziali, poco prima del Giorno della memoria, Mattarella l’ha nominata senatrice a vita. È più di un gesto simbolico, per chi ha voglia di guardarlo nel suo pieno significato tra storia e attualità.

Dalla stazione di Milano era partita per non fare ritorno. Dalla stessa stazione è ripartita, 74 anni dopo, per ricevere l’onore più grande per un cittadino italiano: Liliana Segre è senatrice a vita per nomina diretta del presidente della Repubblica. La prima per Sergio Mattarella. Siederà accanto ad altri quattro: Mario Monti, Elena Cattaneo, Renzo Piano, Carlo Rubbia. Ad essi si aggiunge per diritto il presidente emerito Giorgio Napolitano.

La Segre, 88 anni, è una dei pochi testimoni della Shoah ancora in vita. Una che ha attraversato le vie impervie del dolore: orfana di madre a neanche un anno, è vissuta col padre Alberto e i nonni. Una che sa dichiarare: “Mi ha salvata il loro amore”. Un amore della memoria, dato che li perse tutti ad Auschwitz.

Quando aveva otto anni lo Stato italiano le regalò le leggi razziali e dovette lasciare la scuola. Quando ne ebbe tredici, il padre cercò di salvare lei e due cugini incamminandosi verso la Svizzera: furono fermati. Era il dicembre del 1943. Un mese dopo partirono dal binario 21 di Milano su un treno bestiame carico di altri 605 ebrei. Ad Auschwitz rimase subito sola, separata dai cugini e dal padre, che morì nell’aprile dello stesso anno. A sua insaputa i nonni subirono la medesima sorte: arresto, deportazione e morte nello stesso campo.

La misero a fare munizioni. Sopravvisse – lei stessa dichiara “non so come” – a tre selezioni e alla marcia della morte.

Si definisce “sono solo una nonna”. Soprattutto, nonna di quella bambina che fu, spaurita e sola nel lager, di cui porta il numero 75190 tatuato sul braccio.

Dopo la Liberazione ci vollero mesi di cure prima del rientro nella nazione che le aveva tolto tutto. E anni per ricostruirsi. Molti di più ne trascorsero prima di poter raccontare. Chi oggi tuona contro le violenze denunciate vent’anni dopo ha l’occasione per comprendere che il male annulla chi lo subisce, che dire è torturarsi di nuovo. E che spesso solo il senso di altruismo fa trovare il coraggio: affinché quel male non ritorni.

È per farsi voce di coloro ai quali voce e vita erano state spente che Liliana ha rotto il silenzio, quarantacinque anni dopo la Liberazione.

Nell’ottantesimo delle leggi razziali, poco prima del Giorno della memoria, Mattarella l’ha nominata senatrice a vita. È più di un gesto simbolico, per chi ha voglia di guardarlo nel suo pieno significato tra storia e attualità.

La Segre è una persona discreta ma di grande acutezza. Il Memoriale della Shoah, alla stazione di Milano, porta una parola incisa a caratteri cubitali lungo il muro d’ingresso: indifferenza. L’ha scelta lei, riconoscendo in essa l’elemento che rese possibile l’orrore degli orrori. Ne fu responsabile la storia, fatta dalle scelte degli uomini al comando e i loro seguaci, ma non più della connivenza silente di tutti gli altri. La colpa, ha detto, è nello sguardo altrove. E questo è un monito che non ha luogo e tempo. Un monito eterno che Liliana ci ha regalato.

Ferruccio De Bortoli, presidente della Fondazione Memoriale della Shoah, ha scritto: “La memoria è il vaccino culturale che ci rende immuni dai batteri dell’antisemitismo e del razzismo”. Era il 27 gennaio 2013. Parole profetiche, servono oggi più che mai.

Oggi, che Anna Frank è insultata. Come se l’Olocausto l’avessero portato sulla terra gli alieni e non fosse figlio degli uomini.

Oggi, che la parola razza ritorna in cronaca. E si dimentica che, se la Costituzione la cita, è proprio e solo per dire che non vi può essere discriminazione alcuna tra uomo e uomo.

(*) direttrice “Il Popolo” (Concordia-Pordenone)