Giornata di preghiera e digiuno
Il 23 febbraio, primo venerdì di Quaresima, è dedicato alla preghiera e al digiuno per la pace, ricordando in particolare la Repubblica Democratica del Congo e il Sud Sudan. La Giornata, indetta da Papa Francesco, trova il suo fondamento nel “tragico protrarsi di situazioni di conflitto in diverse parti del mondo”, tra queste anche l’Afghanistan dove da 16 anni si combatte una guerra contro i Talebani, al-Qaeda e jihadisti di ogni genere. A riguardo il Sir ha intervistato padre Giovanni Scalese, religioso barnabita responsabile della Missione “sui iuris” in Afghanistan.
Il 23 febbraio, primo venerdì di Quaresima, è dedicato alla preghiera e al digiuno per la pace, ricordando in particolare la Repubblica Democratica del Congo e il Sud Sudan. La Giornata, indetta da Papa Francesco, trova il suo fondamento nel “tragico protrarsi di situazioni di conflitto in diverse parti del mondo”, tra queste anche l’Afghanistan dove da 16 anni si combatte una guerra contro i Talebani, al-Qaeda e jihadisti di ogni genere. Una guerra che non accenna a finire, costata fino ad oggi centinaia di migliaia di morti, tra i quali, anche 54 militari italiani.
“L’Afghanistan è in guerra non da sedici, ma da quarant’anni – rimarca da Kabul padre Giovanni Scalese, religioso barnabita al quale Papa Francesco, nel 2015, ha affidato la Missione sui iuris in Afghanistan -. Tutto iniziò con l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979, che provocò una guerra durata dieci anni (1979-89) con i mujaheddin. A tale guerra fece seguito la guerra civile (1989-96), il periodo talebano (1996-2001) e la liberazione (2001), che però non ha significato la fine delle ostilità, che di fatto continuano fino a oggi”.
Padre Scalese, in che condizioni versa il Paese?
L’Afghanistan è stato completamente distrutto, non solo materialmente, da questa interminabile guerra.
La gente è stanca e ha paura.
Da alcuni segnali sembrerebbe di capire che entrambe le parti in causa – il governo e gli insorgenti – si rendano conto di non avere la forza per imporsi e quindi sentano il bisogno di giungere a un accordo, grandi potenze permettendo…). Per questo bisogna pregare molto perché la situazione evolva in modo positivo. L’iniziativa del Papa mi sembra quanto mai opportuna:
la preghiera e il digiuno sono le uniche armi che abbiamo a disposizione;
e sono armi molto più potenti di quelle che finora hanno seminato distruzione e morte, senza risolvere alcun problema. Dio abbia pietà di questo povero Paese!
Come vive la piccola Chiesa che lei guida — oltre ai cappellani militari, la sola realtà cattolica nel Paese — da chi è composta, e quali sono le principali problematiche di una comunità “costretta” a vivere trincerata all’interno dell’ambasciata italiana per motivi di sicurezza?
La Chiesa cattolica in Afghanistan è costituita da una piccola parte della comunità internazionale: non tutti i membri di quest’ultima sono cattolici e, tra i cattolici, non tutti sono praticanti. È una comunità piuttosto instabile: in genere, la permanenza degli stranieri in questo Paese ha breve durata. Molti di loro lavorano per le organizzazioni internazionali. La loro partecipazione alla Messa è condizionata da tanti fattori, quali la loro presenza a Kabul (spesso sono in missione nel resto del paese o in licenza), gli impegni professionali (la domenica è un giorno lavorativo), la sicurezza (nei momenti di crisi non sono autorizzati a uscire dai loro compound). Va anche detto che molti occidentali non sono neppure a conoscenza della presenza di una chiesa cattolica a Kabul, e non è prudente, al momento, fare troppa pubblicità, trattandosi di un “obiettivo sensibile”. La vita pastorale si riduce alla Messa quotidiana: nei giorni feriali vi partecipano le Suore, nel fine-settimana (venerdì, sabato e domenica) anche gli altri fedeli. Altre iniziative è impossibile prenderle.
Il fatto che la sede della Missione sia all’interno dell’Ambasciata italiana, se da una parte costituisce una garanzia di sicurezza (di cui dobbiamo essere grati allo Stato italiano), d’altra parte limita inevitabilmente la mia libertà di movimento, l’accesso alla chiesa da parte dei fedeli, necessariamente sottoposti a rigidi controlli e la promozione di attività diverse da quelle liturgiche.
Qual è il significato di questa presenza all’interno di un Paese totalmente musulmano come l’Afghanistan?
Il motivo dell’esistenza della Missione è il servizio pastorale ai cattolici presenti in Afghanistan. Qualsiasi forma di proselitismo è esclusa dagli accordi con cui lo Stato afghano ha autorizzato la costruzione di una chiesa cattolica all’interno dell’Ambasciata d’Italia. In ogni caso,
la presenza di una piccola comunità cristiana in un Paese totalmente musulmano costituisce un piccolo segno, forse trascurato dai più, ma pur sempre dotato di una certa visibilità. In periodi più tranquilli per la storia afghana, la presenza del sacerdote cattolico, almeno a Kabul, era nota e apprezzata.
Avete, come comunità, contatti o dialogo con la popolazione locale intesi come interventi solidali e caritativi? E che frutti produce questo servizio? Ci sono riscontri anche dal punto di vista del dialogo interreligioso?
La Missione svolge il suo servizio caritativo a favore della popolazione locale soprattutto attraverso i suoi membri. Innanzitutto, le Suore. Per oltre sessant’anni, sono state presenti le Piccole Sorelle di Gesù del Padre De Foucauld; sono rimaste anche durante il periodo talebano; da un anno, purtroppo, hanno lasciato l’Afghanistan.
Attualmente sono presenti due comunità religiose femminili: le Missionarie della Carità di Madre Teresa, che hanno un orfanotrofio con una dozzina di bambini disabili e assistono circa 400 famiglie povere; e una comunità intercongregazionale, che gestisce il Centro Pbk (“Pro Bambini di Kabul”) per bambini disabili mentali non gravi, sostenuto da una Onlus italiana. Il Centro accoglie una quarantina di alunni e li prepara all’inserimento nella scuola pubblica. Ci sono poi i Gesuiti che, con il loro Jesuit Refugee Service, sono impegnati nel campo dell’educazione. E poi ci sono molti laici che lavorano per le organizzazioni umanitarie. Ne ricordo qui uno solo: Alberto Cairo, che gestisce il centro ortopedico della Croce Rossa Internazionale. Tutti questi servizi sono assai apprezzati, non solo dalla popolazione, ma anche dalle autorità. La Missione, da parte sua, continua ad aiutare la School of Peace, costruita nei sobborghi di Kabul dal mio predecessore, padre Giuseppe Moretti, e poi donata al governo afghano. Non esiste, al momento, alcuna forma di dialogo interreligioso; la situazione generale non lo permette.
Nelle ultime settimane la capitale Kabul è stata teatro di sanguinosi attentati che più che azioni condotte da singoli kamikaze sembrano essere vere e proprie azioni di guerra pianificate davanti alle quali lo Stato afghano si presenta debole e incapace di rispondere nonostante il supporto di contingenti militari internazionali. Dal suo osservatorio che idea si è fatta di questo Paese e del suo futuro?
Non è mio compito esprimere giudizi sulla situazione politico-militare, anche perché non ho elementi per fare un’analisi adeguata, se non le informazioni che si possono reperire sui media. Parlando in generale, posso dire di non essere molto ottimista, perché vedo che, al di là delle lotte interne tra le varie fazioni,
l’Afghanistan è al centro di giochi politici internazionali fra le grandi potenze globali (Stati Uniti, Cina, Russia) e regionali (Pakistan, India, Iran). Sarà ben difficile che l’Afghanistan riesca a sottrarsi a tali giochi e a risolvere autonomamente i propri problemi interni (che comunque ci sono).
Constatata la complessità della situazione e la sterilità degli sforzi finora intrapresi, sono giunto alla conclusione che l’unica soluzione possa venire dall’alto. Per questo il 13 ottobre scorso, centenario dell’ultima apparizione di Fatima,
ho consacrato, oltre la Missione, anche l’Afghanistan al Cuore immacolato di Maria,
convinto che solo da lei potrà venire un po’ di pace.