Assemblea Generale Kek
Verso l’assemblea generale della Conferenza delle Chiese europee (Kek). L’appuntamento è a Novi Sad, in Serbia, dal 31 maggio al 6 giugno. Si prevedono 500 partecipanti provenienti da tutto il continente e rappresentanti delle tre grandi famiglie cristiane, ortodosse, protestanti e anglicana. Hanno già confermato la loro presenza il patriarca Bartolomeo I, l’arcivescovo Justin Welby e il patriarca Mor Ignatius Aphrem II. Ci saranno anche Frans Timmermans e Mairead McGuinness
L’appuntamento è a Novi Sad, in Serbia, dal 31 maggio al 6 giugno. È qui che si svolgerà la XVI Assemblea generale della Conferenza delle Chiese europee (Kek). Si prevedono 500 partecipanti provenienti da tutto il continente e rappresentanti delle 115 Chiese che compongono la Kek, appartenenti alle tre grandi famiglie cristiane, ortodosse, protestanti e anglicana. Hanno già confermato la loro presenza il Patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, e l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby. Ma ci saranno anche il Patriarca Mor Ignatius Aphrem II, della Chiesa siro-ortodossa di Antiochia e di tutto l’Oriente, il vescovo Irinej di Backa, della Chiesa ortodossa serba, e l’arcivescovo Antje Jackelén, della Chiesa di Svezia. Parteciperanno anche rappresentanti delle istituzioni europee, come Frans Timmermans, primo vice-presidente della Commissione europea, e Mairead McGuinness, primo vice-presidente del Parlamento europeo. L’Assemblea generale della Conferenza delle Chiese cristiane d’Europa (dal titolo quest’anno “Sarete miei testimoni”) è l’organo decisivo più importante. Si convoca ogni 5 anni ed è un momento in cui i rappresentanti delle Chiese si incontrano per valutare il lavoro compiuto, confrontarsi sulle mutate situazioni delle Chiese in Europa, capire insieme quale messaggio e quale servizio concreto dare in questo momento storico al continente europeo. “È pertanto un appuntamento cruciale”, spiega padre Heikki Huttunen, segretario generale della Kek, perché “l’Assemblea definisce le priorità del nostro lavoro per i prossimi 5 anni, senza pianificare ma dando piuttosto una direzione”.
Quale atmosfera si respira oggi in Europa?
Si vive in un contesto tipico della post modernità, con trend al tempo stesso comuni e confliggenti tra loro. Faccio un esempio. Se da una parte si registra una crescita generalizzata dell’interesse per la spiritualità e globalmente le religioni godono di una aumentata considerazione, dall’altra assistiamo ad un processo di secolarizzazione. Lo notiamo nelle nuove generazioni che stanno crescendo in un contesto che non è più cristiano e lo notiamo a livello politico dove le relazioni delle Chiese con i rappresentanti degli Stati e dei governi stanno diventando gradualmente sempre meno importanti e forti. Stiamo poi assistendo ad un radicale cambiamento del paesaggio religioso in Europa con una crescita di alcune pratiche religiose e al declino di altre. In genere, possiamo dire che di fronte ai cambiamenti e alle nuove sfide, non credo che il cristianesimo sia in pericolo in Europa e il compito delle Chiese oggi è ricordare all’Europa che esse sono al servizio della fede, della speranza, dell’amore.
Stiamo vivendo un periodo critico nella storia. L’area del Mediterraneo è tornata ad essere terra di conflitti, povertà, migrazioni, crescita dei populismi. Cosa stanno facendo le Chiese?
Stanno facendo tanto ma forse ciò che fanno, non è visibile o non lo è correttamente.
Credo che la più grande testimonianza che i cristiani possono dare e stanno dando, si gioca a livello locale dove le comunità si impegnano a rispondere alle sfide del loro territorio. C’è chi ha aperto le porte di casa o delle Chiese ai migranti. C’è chi ha dato voce a chi non ha voce. C’è chi si è messo in aiuto concreto di chi non ha lavoro, è povero, è solo. La domanda allora è: come far conoscere all’opinione pubblica questo lavoro, come rendere visibile il ruolo che le Chiese hanno? In questo senso, credo che Papa Francesco sia una risposta a questa domanda. Perché molte persone riconoscono quanto il Papa sta facendo per portare le Chiese fuori da se stesse e metterle al servizio dell’umanità, soprattutto di quella più sofferente. Sta dando una più forte credibilità al servizio della Chiesa, anche a livello internazionale. Forse sta indicando un nuovo modello di Chiesa.
Qual è il segreto di Papa Francesco, della sua capacità di arrivare all’opinione pubblica?
È la sua credibilità. Quando parla, le persone percepiscono che lui parla con il cuore e che è al servizio della verità. Ma questo è vero anche per altri leader e pastori di Chiese, anche se non tutti hanno la visibilità del Papa. È un comune denominatore dei leader cristiani.
Siete molto diversi come Chiese. La Kek rappresenta uno spettro molto vasto di cristianesimo. Si va dagli ortodossi alle tradizioni anglicane e protestanti. Profonde diversità vi attraversano. Non crede che questo sia un problema?
È un problema ma forse anche una risorsa. Sì, le Chiese sono differenti… ma non siamo solo diversi. Ci sono anche molte cose che ci accomunano. Ed è il motivo per cui lavoriamo insieme: siamo cristiani, ci accomuna l’impegno a seguire Cristo e crediamo fermamente nella preghiera di Gesù per l’unità, che tutti siano uno. La questione delle differenze è stata discussa a lungo nel corso degli ultimi 100 anni nel movimento ecumenico e molti progressi sono stati compiuti. Il più importante risultato di questo nuova storia è che oggi le Chiese non sono più nemiche tra loro né tantomeno in composizione.
Abbiamo imparato piano piano a gioire delle buone notizie dell’altro e a capire che una buona notizia per una Chiesa è una buona notizia per tutti.
Perché diceva che la diversità può essere una risorsa?
Perché facciamo esperienze diverse e viviamo in contesti diversi. Se siamo capaci di ascoltarci reciprocamente, ci rendiamo conto che sì, siamo diversi ma anche che abbiamo bisogno gli uni degli altri e questo bisogno è molto più vero di quanto noi stessi ammettiamo. Una delle definizioni della post-modernità è il fatto che identità diverse con provenienze diverse hanno cominciato a vivere le une a fianco delle altre. Nell’Europa occidentale, sono arrivate persone con identità e culture diverse e siamo rimasti tutti scioccati nel vedere come i punti di riferimento potevano essere differenti. La questione cruciale oggi è come vivere insieme e come, pur nella nostra diversità, essere tutti parte di una società. Bisogna fare attenzione a che nessuno si senta un outsider, o che le identità si chiudano in se stesse perché questi processi favoriscono l’aumento del terrorismo, allargano i fossati, favoriscono lo scontro. In questa pluralità le comunità cristiane devono trovare il loro posto.
Soprattutto quelle Chiese che storicamente sono state nel passato Chiese di maggioranza, oggi sono sempre più chiamate ad essere una realtà tra tante.
Padre Huttunen, come vede l’Europa?
L’Europa deve trovare il suo posto nel mondo, non pensare di risolvere solo i suoi problemi. Perché tutti i nostri problemi sono problemi globali. E non possiamo separare l’Europa dal resto del mondo. Dobbiamo ammettere che fino ad oggi l’Europa ha tratto beneficio dalle ingiustizie inflitte nel mondo. Affermare “più giustizia nel mondo per tutta l’umanità”, significa che l’Europa deve assumersi le sue responsabilità. Il Medio Oriente, i conflitti, le povertà in molti Paesi dell’Africa… non si tratta di inviare sul posto aiuti umanitari. Non basta. Occorre andare a fondo alle cause strutturali delle diverse crisi in atto.