Fine vita
La storia si ripete analoga e a breve distanza: due bambini malati senza speranza, due genitori che cercano di opporsi ad una sentenza di morte che arriva, in entrambi i casi, dallo Stato. Il Regno Unito ha deciso – per Alfie oggi, come per Charlie l’anno scorso – una fine accelerata, provocata dal distacco dei macchinari. Sappiamo che la morte è il nostro destino. Ma quando è un’aula ad imporla, per giunta contro il parere di due disperati genitori, allora quella morte accettabile non è. Né può esserlo.
Cesare non deve morire – titolava un noto film dei fratelli Taviani – ma Alfie sì. E prima di lui, Charlie. La storia si ripete analoga e a breve distanza: due bambini malati senza speranza, due genitori che cercano di opporsi ad una sentenza di morte che arriva, in entrambi i casi, dallo Stato. Il Regno Unito ha deciso – per Alfie oggi, come per Charlie l’anno scorso – una fine accelerata, provocata dal distacco dei macchinari.
Charlie Gard era un bambino di dieci mesi affetto da una malattia rara: la sindrome da deplezione del Dna mitocondriale. In uno straziante gioco di sentenze e contro sentenze i giovani genitori, Connie e Chris, le avevano provate tutte pur di ottenere il nulla osta necessario a portare il piccolo, tenuto in vita da macchine, all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. Ospedale che, non solo aveva accolto la richiesta, ma aveva anche stabilito accordi con esperti internazionali per mettere a punto un protocollo sperimentale di cura. Ultima e decisiva è giunta però la sentenza della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo che, confermando quanto già deciso dallo Stato inglese, ha dato il via libera alla sospensione delle cure da parte dei medici del Great Ormond Street Hospital di Londra. E Charlie se ne è andato il 28 luglio 2017. Il 4 agosto avrebbe compiuto un anno.
Per lui in tanti avevano speso parole di solidarietà: da Papa Francesco a Donald Trump. Mezzo mondo si era mobilitato per la raccolta di fondi necessari al suo trasferimento. Resta indimenticabile lo strazio dei giovani genitori, il loro essere inascoltati anche di fronte all’ultima richiesta: portare il loro piccolo a morire a casa, nella culla preparata per lui. Lo hanno avuto solo per qualche ora, da morto, a sentenza eseguita.
La storia di Alfie Evans è ancora aperta, ma corre sugli stessi binari: una malattia che non lascia al momento speranze (una patologia neurologica degenerativa), due giovani genitori, Kate e Thomas, che invocano il permesso di portare il figlio di 23 mesi al Bambin Gesù di Roma (contattato fin da luglio 2017), le parole di papa Francesco che la settimana scorsa ha incontrato il papà e una sentenza dei giudici inglesi che – ancora una volta – ha dato l’ok al distacco di Alfie dalle macchine che lo tengono in vita.
Ai genitori non è rimasto che giocare l’ultima carta – lo fecero anche quelli di Charlie – e si sono rivolti alla Corte europea dei Diritti dell’uomo di Strasburgo affinché impedisca all’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool di eseguire la sentenza.
Già è difficile comprendere come, di fronte a un bambino morente, ci siano sentenze, codici e aule di tribunali e non cure di medici e carezze di genitori. Ma tanto ancor più lontana, fino all’incomprensibile, è la logica che il Regno Unito segue. E Strasburgo non inverte.
Sappiamo che la morte è il nostro destino. Non la digeriamo che a fatica quando incombe sui nostri cari, che sia l’esito di una malattia o di un evento traumatico. In ogni caso è con un agente esterno e più forte di noi – la malattia, il fato – che ce la prendiamo nella nostra impotenza e nel momento doloroso del distacco. Ma quando è un’aula ad imporla, per giunta contro il parere di due disperati genitori, allora quella morte accettabile non è. Né può esserlo.
(*) direttrice “Il Popolo” (Concordia-Pordenone)