Accordo infranto
Il presidente americano Donald Trump ha deciso l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano siglato nel 2015. Una scelta che rimette in discussione l’intesa, firmata anche da Cina, Francia, Germania, Gran Bretagna, Russia e Ue, tutte intenzionate ad andare avanti con l’Iran, e pone problemi di sicurezza regionale con Arabia Saudita e Israele che seguono con preoccupazione le mosse iraniane. Ne abbiamo parlato con il generale Vincenzo Camporini, già capo di Stato maggiore dell’aeronautica (2006-08) e della difesa (2008-11), presidente del Centro alti studi della difesa (2004-06) e oggi vice presidente dell’Istituto affari internazionali.
Tanto tuonò che piovve. Alla fine il presidente americano Donald Trump ha deciso: gli Usa si ritirano dall’accordo sul nucleare iraniano firmato nel 2015 con l’Iran insieme a Cina, Francia, Germania, Gran Bretagna, Russia e l’Unione europea. Il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), questo il nome dell’intesa, impone limitazioni alla capacità dell’Iran di sviluppare il suo programma nucleare civile in modo da impedirne la diversione a scopi militari. Limiti temporanei poiché verranno progressivamente meno tra il 2025 e 2030. Tuttavia, una volta estinto l’accordo all’Iran sarà comunque proibito di dotarsi di armi atomiche in base al Trattato di non-proliferazione nucleare (Tnp), di cui è parte. A vigilare sull’attuazione dell’accordo è l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) con ampi poteri di ispezione nei siti iraniani. Nel dare l’annuncio Trump ha anche chiarito che adotterà nuove sanzioni contro l’Iran e contro quei Paesi che continueranno ad aiutarlo. La mossa Usa oltre a indebolire il presidente moderato e riformista Rohani e rafforzare gli ultra-radicali e i pasdaran che avevano “ingoiato” a forza questo accordo, rischia di avere pesanti ripercussioni per la sicurezza regionale con un inevitabile aumento di tensioni con i principali alleati Usa nella regione, vale a dire Israele e Arabia Saudita.
Della decisione di Trump ne abbiamo parlato con il generale Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica (2006-08) e della Difesa (2008-11), presidente del Centro Alti Studi della Difesa (2004-06) e oggi vice presidente dell’Istituto Affari Internazionali (Iai).
Generale, come giudica la scelta del presidente Trump di uscire dall’accordo nucleare iraniano?
La mia reazione iniziale è che
l’accordo iraniano deve essere salvaguardato perché, pur non essendo sicuramente perfetto, è il migliore possibile.
Devo anche dire che, nonostante io non sia in sintonia con l’attuale amministrazione americana, alcuni risultati positivi, in tema di politica estera e di relazioni internazionali, Trump li sta conseguendo. Mi riferisco in particolare alla Corea del Nord e, per quanto grossolana sia la questione dei dazi, alla Cina che è stata indotta a rivedere il proprio atteggiamento a fare delle concessioni che fino a qualche settimana fa erano impensabili. Per questo motivo sospendo un po’ il giudizio perché vorrei vedere cosa succederà dopo questa decisione.
Il presidente iraniano Hassan Rohani ha risposto a Trump che “l’Iran continuerà a far parte dell’accordo”. Ma ora che gli Usa si sono ritirati che interesse avrebbe l’Iran a continuare a rispettare l’accordo?
Molto dipenderà dalle sanzioni che verranno reimposte da Trump e dei loro effetti nei confronti dei Paesi che ora operano senza sanzioni.
C’è un problema di comportamenti nei confronti delle banche: se questi istituti dovessero essere penalizzati dal mercato americano poiché proseguiranno i loro affari con l’Iran, si potrebbe arrivare ad una sorta di paralisi che in qualche modo danneggerebbe moltissimo anche i Paesi europei.
Si stima che in Iran le imprese italiane, minacciate da nuove sanzioni, hanno commesse per circa 30 miliardi di euro…
Non sono certo pochi. Ma parliamo di negoziati che necessitano di un supporto del sistema finanziario internazionale che può essere messo in discussione. Si tratta di un discorso tecnico e giuridico complesso. Prima di esprimere un giudizio politico bisogna vedere le reali conseguenze di questa decisione che valuteremo nelle prossime settimane.
Gli altri Paesi firmatari hanno espresso rammarico per questa decisione. Cosa dovrebbe fare l’Ue, che pure può rivendicare questo accordo come il suo più grande successo diplomatico?
Il ruolo giocato in questa vicenda dall’Alto Rappresentante per la politica estera, Federica Mogherini, e da chi l’ha preceduta, è stato importante. Esiste una posizione formalmente dell’Ue, che poi questa non corrisponda all’unanimità del sentire di tutti i suoi Paesi membri è un altro discorso.
La solidarietà che si è vista in questo caso è tale che si può sperare che ci sia una posizione attribuibile all’Ue favorevole a questo tipo di accordo.
L’Ue sarà in grado di rafforzare e rilanciare, sotto il profilo diplomatico, questo accordo?
Sarei scettico a riguardo. Chi ha negoziato l’accordo è stato certamente l’Alto Rappresentante in nome e per conto dei Paesi che lo hanno siglato, cioè Francia, Gran Bretagna e Germania. Credo sia difficile immaginare un’azione di rilancio che possa coinvolgere tutta l’Europa.
Quali potrebbero essere le implicazioni del collasso dell’accordo nucleare in una regione mediorientale già segnata da tensioni e guerre?
Il collasso potrebbe essere drammatico.
Al di là delle intenzioni dell’Iran, ci sono Paesi che avvertono con enorme preoccupazione la posizione iraniana e sono Israele e l’Arabia Saudita. Quest’ultima non ha fatto mistero della sua ambizione di conseguire uno standing di potenza militare pari a quello iraniano, capacità nucleare compresa.
Ritiene concreto il rischio di un confronto militare tra Iran e Israele, sempre più gendarme del Medio Oriente per conto degli Usa?
Purtroppo temo di sì e questo a prescindere dalla questione nucleare. La tensione lungo i confini nord di Israele, con Siria e Libano, è tale per cui
temo che il rischio di un conflitto stia crescendo
come testimoniano anche gli ultimi raid aerei, presumibilmente condotti da Israele, contro un deposito di armi dei Guardiani della Rivoluzione, corpo di élite del regime iraniano, nei pressi di Damasco.
Il prossimo 14 maggio avrà luogo il trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme con il riconoscimento di fatto della città come capitale dello Stato ebraico contro ogni risoluzione dell’Onu. Una nuova miccia che si accende nella polveriera mediorientale o un’altra di quelle decisioni unilaterali di Trump che potrebbero portare a sviluppi positivi?
Innanzitutto bisogna osservare che questo trasferimento non è altro che la concretizzazione di una posizione assunta dal Congresso Usa molto tempo prima dell’avvento di Trump. È ovvio che in un’ambiente come quello mediorientale qualsiasi fatto, come per esempio il Giro di Italia, può diventare oggetto di riflessione politica.