Dopo il Ramadan
Il cessate-il-fuoco tra governo afghano e talebani, indetto per la fine del mese santo di Ramadan resta “un fatto straordinario e un motivo di grande speranza” per l’Afghanistan. Lo racconta al Sir padre Giovanni Scalese, religioso barnabita a capo della Missione sui iuris nel Paese asiatico dove “la voglia di pace” che si registra nella popolazione si infrange negli attentati organizzati dallo Stato islamico, terzo incomodo tra talebani e governo. Il ruolo e lo stile dei soldati italiani all’interno della missione internazionale
Una vera e propria doccia gelata. Il tentativo del presidente afghano, Ashraf Ghani, di estendere la minitregua di tre giorni, concordata con i talebani, per rispettare l’Eid al-Fitr, la fine del mese santo di Ramadan, è naufragato per il rifiuto degli insorti che da oggi, come riportato dal portale “Voce della Jihad”, “torneranno alle loro consuete operazioni”. L’avvio di un processo di pace in Afghanistan resta così in alto mare anche se da queste 72 ore di cessate-il-fuoco, il primo dall’inizio del conflitto nel 2001, sono arrivati segnali importanti come gli incontri tra esponenti governativi e delle forze di sicurezza con capi militari talebani. Lo stesso Governo aveva diffuso una foto del ministro dell’Interno, Wais Ahmad Barmak, a colloquio con responsabili talebani a Kabul. Anche la popolazione spinge per la pace come testimoniato da una insolita “Marcia per la pace” giunta oggi, dopo 38 giorni di cammino, nella capitale afghana da Lashkargah, capoluogo della provincia meridionale di Helmand. Oltre 700 chilometri durante i quali decine di manifestanti e attivisti hanno gridato “no” alla guerra e chiesto la pace. Un grido rimasto inascoltato visto che nel Paese gli attentati hanno ripreso vigore: nel distretto Rodat della provincia orientale di Nangarhar un kamikaze si è fatto esplodere in mezzo a una folla di civili, talebani e forze di sicurezza che festeggiavano l’Eid al-Fitr, causando almeno 20 morti e 16 feriti. Attentato provocato, secondo fonti della sicurezza locale, dallo Stato islamico.
Nonostante questi segnali contrastanti che “invitano alla cautela”, padre Giovanni Scalese, religioso barnabita al quale Papa Francesco, nel 2015, ha affidato la Missione sui iuris in Afghanistan, definisce “un fatto straordinario i tre giorni di tregua sostanzialmente rispettata. E questo è sicuramente un motivo di grande speranza”.
“Penso che da entrambe le parti ci sia la voglia di porre fine a questo interminabile conflitto”.
Ci sono dei presupposti concreti perché questo avvenga?
Credo, ma sono solo mie sensazioni che non si fondano su dati oggettivi, che qualcosa stia cambiando anche a livello internazionale. Mi pare di capire che le potenze occidentali abbiano voglia di disimpegnarsi gradualmente dall’Afghanistan e quindi favorire un dialogo fra governo e talebani. La reazione della Nato, che per bocca del suo segretario generale, Jens Stoltenberg, ha accolto con favore la tregua giudicandola un passo avanti verso i colloqui di pace tra governo e talebani, è assai significativa a riguardo.
Come giudica l’apertura del presidente Ghani che si è detto disposto a discutere anche sulla presenza di truppe straniere in Afghanistan?
Anche qui si tratterà di vedere come evolverà la situazione e, soprattutto, vedere quale sarà la reazione dello Stato islamico.
Se le grandi potenze sono d’accordo sulla fine del conflitto, una soluzione sarà trovata.
Oso troppo a voler vedere in questi segnali di speranza i primi effetti della consacrazione dell’Afghanistan al Cuore immacolato di Maria, il 13 ottobre scorso?
Si parla con sempre maggiore insistenza di un possibile ritiro del contingente italiano dall’Afghanistan. Cosa ne pensa?
Se il ritiro dovesse avvenire contestualmente a un processo di pacificazione, penso che sia non solo possibile, ma anche auspicabile.
Personalmente, perderei una presenza amica; ma questo è un altro discorso. Attualmente sono impegnati in Afghanistan circa 900 soldati, di cui una cinquantina a Kabul e il resto a Herat. Non ho finora avuto alcun contatto con le truppe stanziate a Herat, mentre ho un rapporto regolare con i militari della base Nato di Kabul (Camp RS), dove vado a celebrare settimanalmente la Messa in italiano. Questi ultimi hanno solo incarichi direttivi e di assistenza all’esercito e alle forze di sicurezza afghane; non hanno quindi contatti diretti con la popolazione locale. Credo che sia diversa la situazione a Herat, ma non posso dir nulla, non avendone esperienza diretta.
Qual è il tratto più distintivo della presenza militare italiana in Afghanistan? Si può parlare di uno stile tutto italiano nelle missioni internazionali?
La fama dei soldati italiani è sempre stata positiva. Per quanto mi riguarda, non posso che dir bene dei militari che finora ho conosciuto. Io non avevo mai avuto, nella mia vita, contatti diretti con l’esercito; ma l’esperienza che sto facendo in questi anni è assolutamente positiva. I militari che ho conosciuto finora sono persone degnissime, e in molti casi anche dei buoni cristiani. Anche quando non hanno contatti diretti con la popolazione – come nel caso di Kabul – sanno come venire incontro alle necessità dei più bisognosi: in occasione del Natale hanno consegnato una cospicua offerta alle nostre suore per i loro assistiti, per non dire di quello che hanno fatto in passato con il mio predecessore.
L’Italia può essere fiera dei suoi soldati in giro per il mondo: non le fanno certo fare una brutta figura.