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Le parole dette ci fotografano

Parole O_stili (la grafia suggerisce il doppio senso) sono anche diventate un decalogo comportamentale, del quale piace ricordare il punto due: “Si è ciò che si comunica. Le parole che scelgo raccontano la persona che sono: mi rappresentano”. A questo punto ciascuno ricordi che, parlando, si fotografa: esiste anche un instagram verbale, specchio della persona – bella o brutta, falsa o vera, garbata o sgarbata – che ciascuno è

(Foto: AFP/SIR)

Parole ostili: quelle degli uni contro gli altri, in politica, in tv, nello sport, tra di noi. Parole ostili in un mondo che sì è fatto arena, spazio del confronto acceso come stile comune e condiviso. Più che l’argomentare, pacatamente e nel rispetto dell’interlocutore, pare prevalere l’istinto di investire l’altro di parole in un crescendo di toni e contenuti. Come se solo così fosse possibile farsi ascoltare. Come se a contare, più che la verità, fossero i decibel e la tracotanza.
Per dare corpo a quella che è più di una sensazione (bastino i toni e le parole grevi riportate dalle cronache dell’ultima settimana) l’agenzia di sondaggi Swg di Trieste ha svolto anche quest’anno l’indagine “Parole ostili” (presentata il 6 giugno).
I risultati? La percezione del cosiddetto l’heate speech (discorso d’odio) è scesa dal 70 al 53%. E non è indice di bene. Il dato non indica un miglioramento dello stile comunicativo, al contrario dimostra che sempre meno viene percepito quanto in malo modo, scortesemente, scurrilmente ci si esprime. Che si va perdendo il polso di quanto ci si allontani non solo da un parlare forbito – che è archeologia espressiva nella solo formulazione dell’idea -, ma anche da un linguaggio corretto, aderente alla realtà, garbato, veritiero. In sintesi: civile.
E il danno è doppio se non si coglie più la distanza né da un linguaggio cortese, né da uno onesto, tanto che anche le fake news (false notizie) sono sempre meno avvertite come tali. La stessa indagine conferma infatti che sulle fake news l’attenzione in un anno è calata del 6%.
Conseguenza? Le notizie buttate là per alzare polveroni, se non per dirottare opinioni, possono ancor meglio agire indisturbate, ottenendo lo scopo di chi le diffonde. Questi dati dicono che al peggio ci si abitua, che danno sempre meno nell’occhio, suscitano meno fastidio. La ricerca evidenzia che solo la fascia di popolazione più istruita ha una maggiore percezione di quanto sta avvenendo. Ma poco può se si quantifica in un risicato 7%.
È la veste moderna di una storia antica: come i contadini nella favola di Esopo, non crediamo più a chi grida “Al lupo, al lupo!”. E i lupi, indisturbati, si mangiano le nostre pecore.
Non meno allarmante è scoprire gli ambiti su cui heate speech e fake news operano. Per dirla con le esatte parole della ricerca: “L’aggressività e la falsità” raggiungono il top quando argomentano “politica ed economia, esteri e migrazioni”. Nel dettaglio: il 50% della comunicazione riguardante la politica e il 31% di quella relativa alle migrazioni sono additate dagli intervistati come fertile terreno per discorsi distorti, aggressivi e ingannevoli.
Per giunta, per due italiani su tre si tratta di una strada senza ritorno: il 66% degli intervistati giudica il fenomeno non temporaneo, ma “il nuovo modo di comunicare della società d’oggi” nella rete e fuori dalla rete.
Parole O_stili (la grafia suggerisce il doppio senso) sono anche diventate un decalogo comportamentale, del quale piace ricordare il punto due: “Si è ciò che si comunica. Le parole che scelgo raccontano la persona che sono: mi rappresentano”. A questo punto ciascuno ricordi che, parlando, si fotografa: esiste anche un instagram verbale, specchio della persona – bella o brutta, falsa o vera, garbata o sgarbata – che ciascuno è.

(*) direttrice “Il Popolo” (Concordia-Pordenone)