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Il 18 settembre di ottanta anni fa, a Trieste, Benito Mussolini proclamò all’Italia e al mondo la difesa della razza italiana. Da cinque anni, una targa posta a terra ricorda quel giorno come la prima di tante orrende pagine di storia, scritte tutte col sangue degli ebrei italiani
Trieste era italiana da neanche vent’anni, da quel novembre 1918 in cui era entrata a far parte del Regno alla fine della Grande guerra, che si trovò teatro di una delle pagine più vergognose e ancora imbarazzanti della nostra storia.
Avvenne in una piazza nuova di nome e di fatto. Piazza Unità, abbandonato il nome austriaco di Piazza Grande, fu liberata pure dell’antica fontana dei Quattro Continenti, colpevole di impallare scena e palco. Quello su cui, il 18 settembre di ottanta anni fa, Benito Mussolini proclamò all’Italia e al mondo la difesa della razza italiana. Da cinque anni, una targa posta a terra ricorda quel giorno come la prima di tante orrende pagine di storia, scritte tutte col sangue degli ebrei italiani. La Risiera è ancora lì per chi avesse dimenticato.
Quello scenografico proclama non fu che l’atto esteriore di un lavorìo in atto da tempo per vestire di scienza l’ideologia. Uno l’obiettivo: stabilire l’esistenza di una razza italiana affine a quella ariana di eco nazista.
Si era partiti nel ’37 quando, in piena conquista coloniale, si volevano impedire concubinaggio e matrimoni con le indigene. Più che difesa dei buoni costumi, fu difesa del dna italico dalla mescolanza con le genti africane. Un primo segno di quel razzismo che si fece poi antisemitismo.
Il ’38 fu tutto un crescendo: 14 luglio Manifesto sulla purezza della razza italiana redatto da dieci scienziati; 25 luglio comunicato della segreteria del Partito nazionale fascista sulla razza italiana; 5 agosto nasce il giornale “La difesa della razza”; 5 settembre Regio decreto per la difesa della razza nella scuola fascista; 7 settembre Regio decreto sugli ebrei stranieri; 15 settembre testo unico delle leggi già emanate per la difesa della razza nella scuola; 23 settembre istituzione di scuole elementari per fanciulli di razza ebraica; 6 ottobre Dichiarazione sulla razza votata dal Gran Consiglio del Fascismo; 15 novembre testo unico per la difesa della razza nella scuola italiana. Decreti firmati da Mussolini capo del governo e del partito fascista, promulgati Vittorio Emanuele III Re d’Italia.
Bambini, ragazzi e docenti ebrei furono esclusi dalla scuola. Emarginazione ed esclusione riguardarono varie categorie di lavoratori ebrei. Gli scienziati emigrarono: lo fece pure Enrico Fermi, reo di moglie ebrea. Albert Einstein lasciò l’Accademia dei Lincei.
Queste le parole proclamate da Mussolini quel – non così lontano – 18 settembre: “Il problema di scottante attualità è quello razziale… Adotteremo le soluzioni necessarie… Coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito ad imitazioni o peggio a suggestioni sono dei poveri deficienti… È in relazione con la conquista dell’impero… gli imperi si conquistano con le armi, ma si tengono con il prestigio. E per il prestigio occorre una chiara, severa coscienza razziale, che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime. Il problema ebraico non è dunque che un aspetto di questo fenomeno. L’ebraismo mondiale è stato… un nemico irreconciliabile del Fascismo”.
E la folla? La folla non contraddisse. Né quel 18 settembre a Trieste, né dopo. E come la folla fecero tanti altri da quel giorno. Anche quando, il 17 novembre, arrivò il Regio Decreto per la difesa della razza italiana, cui si aggiunse – il 29 giugno ’39 – il Regio decreto sull’esercizio delle professioni da parte dei cittadini ebrei.
Ci sono silenzi figli della paura, altri della condivisione. A quale categoria appartenevano quelli di allora è difficile a dirsi. Liliana Segre, neosenatrice a vita, li ha spiegati con “lo sguardo altrove”. Lei c’era: merita l’ascolto.
Una voce si alzò, netta e coraggiosa: quella di Papa Pio XI. Non tacque all’indomani del Manifesto della razza: “Ma io mi vergogno… mi vergogno di essere italiano… Io non come papa, ma come italiano mi vergogno! Il popolo italiano è diventato un branco di pecore stupide. Io parlerò, non avrò paura” (16 luglio 38, udienza privata col padre gesuita Tacchi Venturi). Ribadì la contrarietà assoluta il giorno dopo i provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista: “Ma l’antisemitismo è inammissibile” (6 settembre ’38). Le parole erano ferme, ma la voce del Papa non poté fermare né la storia né la strage.
(*) direttrice “Il Popolo” (Concordia-Pordenone)