Comportamenti estremi
Non hanno la percezione fino in fondo del rischio che corrono. Esistono solo se condividono sui social il gesto sempre più estremo. A emozionarli non è l’impresa in sé ma la sua visibilità e i “like” che ne conseguono. La virtualizzazione del gesto che fa dire loro: “Esisto se sono visibile”. Intervista con Maria Beatrice Toro, docente di psicologia di comunità all’Auxilium
Si può morire per un selfie o per una sfida in rete? Per la folle moda del DaredevilSelfie o del Black out? Oppure per provare l’ebbrezza della guida proibita di un mezzo? Nella notte di sabato 15 settembre un ragazzo di 15 anni di Sesto S. Giovanni, nel milanese, è morto per un selfie “estremo” dal tetto di un centro commerciale. Il suo profilo Instagram conteneva altri autoscatti da luoghi pericolosi. Qualche giorno prima un quattordicenne si è ucciso nel tentativo di emulare il Black out, gioco estremo sui social che consiste in una folle sfida all’autosoffocamento fino al limite massimo di resistenza. Domenica 16 settembre un tredicenne di Venezia è morto schiacciato da un muletto sul quale era salito per gioco insieme al fratello di 14 anni. Tutti giovanissimi, tutti maschi, ma non sono che le ultime vittime di queste assurde pratiche. Abbiamo chiesto a Maria Beatrice Toro, docente di psicologia di comunità presso la Pontificia Facoltà di Scienze dell’educazione Auxilium, di aiutarci a capire e se possibile trovare risposte.
Perché lo fanno?
Nei ragazzi è sempre esistita l’attrazione per il rischio, ma oggi viviamo in una società caratterizzata da una sorta di innalzamento della soglia di percezione delle sensazioni. Gli adolescenti sono abituati a sensazioni forti e cercano sensazioni sempre più eccitanti. Fin da piccoli, i bambini vivono in contesti molto ‘emotigeni’ e l’asticella di ciò che viene percepito come eccitante e coinvolgente viene innalzata sempre più. Per questo cercano comportamenti assolutamente sopra le righe esasperando il bisogno di mettersi alla prova caratteristico dell’adolescenza. Ed oggi cercano soprattutto visibilità: emoziona non tanto il lanciarsi con il paracadute ma il farsi vedere, il riverbero che ha il gesto temerario. Non basta andare sul tetto di un grattacielo:
l’emozione non consiste nell’esperienza estrema ma nella sua condivisione sui social, nella gratificazione per i ‘like’ ricevuti.
Da dove nasce questa spasmodica ricerca di consenso, questo bisogno di sentirsi apprezzati?
Da una forma di narcisismo ‘fisiologico’ – che affonda le radici nel desiderio naturale di attenzione, di essere ascoltati e apprezzati, presente già a un anno in ogni bambino – sul quale in questi casi si innesta una distorsione patologica: “io esisto se faccio le storie, se faccio i selfie, se ho visibilità”. Una patologizzazione accentuata anche dalla potenza e pervasività del web e dei social.
Nella vita di questi ragazzi dov’è il confine tra reale e virtuale?
La percezione della realtà concreta è filtrata dal suo racconto, è totalmente indistinguibile dal virtuale.
Il reale viene vissuto nella misura in cui è virtualizzabile.
Sono consapevoli dei rischi che corrono?
La cosa tragica è che non percepiscono il rischio di morire. La loro non è ricerca del pericolo, di sfidare la morte come in un’ordalia: quello che li spinge a gesti sempre più estremi è il tentativo di produrre un’immagine che colpisca. Manca la consapevolezza del rischio perché non hanno la percezione della dimensione corporea e dei suoi limiti come malattia e mortalità.
Secondo un recente sondaggio, il 13% degli adolescenti si è fatto almeno una volta un selfie a rischio, e 6 su 10 sono maschi.
Nel maschile è insito un maggiore grado di impulsività e spavalderia. Nelle ragazze la popolarità non è legata al gesto coraggioso ma piuttosto all’esibizione del corpo, della bellezza. La sfida non si gioca sul coraggio ma piuttosto sulla gara alla perfezione fisica, spesso distorta in un’immagine di eccessiva magrezza
Noi adulti non possiamo proteggere a oltranza i nostri figli e garantire loro la felicità. Che possiamo fare?
Dobbiamo tornare a fare i genitori, incoraggiarli a fare coinvolgenti esperienze di emozioni sane: sport, volontariato, relazioni reali. In realtà noi siamo iperprotettivi e questo ci rende un po’ complici. Ci sentiamo più tranquilli con un figlio a casa con lo smartphone piuttosto che fuori, magari al freddo, impegnato in qualche attività fisicamente esigente ma sana, importante per il suo equilibrio e la costruzione di relazioni reali, ma che a noi crea ansia. Oppure siamo concentrati solo sul suo aspetto, sul suo rendimento scolastico. I ragazzi di oggi sono tristi, escono poco, si chiudono in casa con dispositivi che in fondo piacciono anche a noi e offrono distrazioni e divertimenti senza bisogno di incontrare l’altro.
Le relazioni virtuali sono semplici, mentre costruire una relazione significativa chiede la fatica dell’attesa, del rischio.
Dunque quali consigli si sente di dare ai genitori?
Penso a quelle povere famiglie, ai papà e alle mamme travolti dai sensi di colpa, distrutti dal chiedersi: se avessi visto, se avessi capito, se avessi fatto…. In realtà non si può arrivare dappertutto ma secondo me occorre tentare di essere non iperprotettivi ma presenti. Fin dalla più tenera età perderci tempo, stare loro vicino, dialogare, ascoltare, rispettare i loro spazi ma esserci, sempre. Anche commentare con loro questi fatti, farli ragionare e sviluppare consapevolezza.
Non sostituirsi a loro ma essere con loro, al loro fianco.