70° Dichiarazione universale diritti umani
In due anni Loubna Bensalah, 26 anni, attivista marocchina, ha percorso circa 2000 km a piedi per incontrare le donne in Marocco e Tunisia. Prima il confronto e la conoscenza, ora l’impegno per i diritti delle donne.
In due anni ha percorso circa 2000 km a piedi per incontrare le donne in Marocco e Tunisia e promuoverne i diritti. È giovane, bella e determinata Loubna Bensalah, 26 anni, attivista marocchina che sta girando l’Italia settentrionale nel suo tour promosso dal Cipmo (Centro italiano per il Medio Oriente). L’azione del camminare a piedi attraverso il suo progetto “I walk with her” è molto simbolica. Anche la sua comunicazione, rilanciata sui social, è studiata ed efficace. Tanto che l’Università Mohamed V di Rabat le ha affidato una cattedra in comunicazione. Quest’anno le marce di Loubna sono diventate un’iniziativa pubblica intitolata “Kayna – alla conquista dello spazio pubblico attraverso la marcia per le donne”: cammina insieme a donne dei villaggi marocchini per poi fermarsi a discutere di come conquistare diritti e accedere agli spazi pubblici (lavoro, scuola, politica) alla pari degli uomini. Loubna ha recentemente portato la sua esperienza a Parigi, durante la conferenza dell’Unesco per il lancio del progetto di “Prevenzione dell’estremismo violento attraverso l’empowerment dei giovani in Giordania, Libia, Marocco e Tunisia”. In occasione del 70° anniversario della Dichiarazione dei diritti umani che ricorre il 10 dicembre, ecco una testimone ed attivista del risveglio delle donne del Maghreb.
Cosa hai scoperto durante il tuo viaggio a piedi e l’incontro con tante donne del tuo Paese? Ci sono ancora tanti diritti da conquistare?
Sono una marocchina che ha avuto accesso all’educazione superiore, al lavoro; sono cresciuta in una famiglia libera che mi ha permesso di viaggiare all’estero e all’interno del Marocco. Non avevo veramente consapevolezza delle sofferenze delle donne nel mio Paese. Dal punto di vista dei diritti umani durante il mio viaggio ho capito che
non è la legge a condizionare le donne ma la mentalità.
Le leggi non vietano a nessuna donna di uscire in minigonna, di lavorare, di votare, di andare a scuola o di fumare in pubblico. Le mentalità sono molto più forti delle leggi in Marocco. E questo accade sia nelle piccole, sia nelle grandi città. È vero che nelle grandi città come Marrakech o Rabat c’è più emancipazione ma dipende dal quartiere, dal distretto. Per essere donne libere bisogna abitare nei quartieri belli, andare nei caffè. Vale a dire,
bisogna avere soldi per essere una donna libera.
In Tunisia la situazione è diversa?
In Tunisia la situazione è un po’ diversa. Dopo la rivoluzione le donne hanno più consapevolezza della necessità di tutelare i propri diritti. In Marocco le donne hanno iniziato negli anni ’40 a lottare ogni giorno per avere un minimo di diritti. In Tunisia, invece, nel 1956 Bourghiba ha dato tutti i diritti alle donne in un colpo solo. La società civile non si è dovuta battere. Quando la situazione è diventata critica con i governi successivi il movimento femminista in Tunisia ha ricominciato a battersi per far sì che i diritti acquisiti non venissero tolti. Le leggi ci sono ma incontrando le donne tunisine mi sono resa conto che
non hanno tutta questa libertà e non approfittano dei loro diritti, perché anche lì sono condizionate dalla mentalità.
Una mentalità patriarcale?
Sì, è una mentalità patriarcale: sostiene che gli uomini sono migliori delle donne, che la donna deve essere protetta e bisogna preservare la sua reputazione prima di sposarsi ed avere dei bambini. Il modello migliore è una donna che non esca molto di casa e si occupi delle faccende domestiche e dei figli, altrimenti è malvista.
Ma il potere è dell’uomo.
In Italia abbiamo avuto la rivoluzione femminista negli anni ’60/’70. L’emancipazione delle donne del Maghreb quali strade seguirà?
Secondo me, c’è una sola strada: l’uguaglianza completa tra le persone. Non indirizzarsi più a donne o a uomini ma a cittadini. Il modo di cambiare le mentalità sarà diverso, perché in Occidente avete fatto il vostro percorso, avete lottato e ottenuto, e lottate ancora per affermare dei diritti.
Ora tocca a noi donne mediorientali fare il nostro cammino così come lo percepiamo e sentiamo,
perché viviamo in culture completamente diverse, religioni diverse. Non bisogna seguire per forza un modello europeo. Dobbiamo seguire i nostri modelli e fare i nostri piccoli passi, poco a poco, perché è in gioco la nostra identità.
La pressione sociale della religione è molto forte?
La religione in questo caso viene usata quando si vuole dire alle donne di non fare qualcosa ma non si hanno le argomentazioni per motivarlo. Ma la religione non ha niente a che fare con l’evoluzione di un popolo.
Subiamo più la pressione delle tradizioni, dei costumi, la paura di ciò che può dire la gente. Abbiamo bisogno di piccoli e lenti cambiamenti.
In Marocco è così. Non è come in Arabia Saudita dove si vieta alle donne di guidare l’automobile. L’Africa del nord è molto diversa.
L’invito è, quindi, a fare distinzioni, quando si parla genericamente di donne arabe o mediorientali…
Questo è un grande errore che si può commettere. Perfino, in Marocco non si può parlare di marocchine perché all’interno del Paese ci sono grandi diversità, hanno mentalità completamente diverse, non c’è un modello di pensiero unico. È già difficile tra noi, per cui parlare generalizzando delle donne mediorientali è sbagliato.
Il Marocco è tra i Paesi all’avanguardia sul fronte dei diritti: può aprire percorsi di tutela anche nel resto del mondo arabo?
Sì, certo. Le donne del Maghreb hanno una lingua e una religione in comune e possono aprire una porta per l’emancipazione delle donne in Medio Oriente e in Africa del nord. La Tunisia è leader nei diritti delle donne, il Libano è un modello da seguire, è molto emancipato. Bisogna lavorare sulle mentalità, con progetti per spiegare alle persone i cambiamenti necessari e non mettendole davanti al fatto compiuto. Guardiamo, ad esempio, a quanto successo di recente in Tunisia: a maggio un progetto di legge per stabilire pari diritto all’eredità tra uomini e donne è approdato in Parlamento. La società civile si è battuta per ottenerlo ma poi bisogna spiegare alla gente in cosa consiste. Quando ho viaggiato a piedi per la Tunisia domandavo alle donne se erano d’accordo con questa legge: 89 di loro si sono dette contrarie. Quindi va bene seguire le raccomandazioni delle Nazioni Unite e i progetti in atto ma bisogna anche che il popolo sia d’accordo con ciò che viene proposto.
Il 10 dicembre si celebrano i 70 anni della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, qual è l’auspicio per le donne del Maghreb?
Che siano se stesse e vivano la propria umanità, che smettano di pensarsi come donne ma agiscano come esseri umani.
I progetti per il futuro?
Continuerò a camminare in Marocco e Tunisia per i diritti delle donne e sto lavorando all’iniziativa pubblica intitolata “Kaina – alla conquista dello spazio pubblico attraverso la marcia per le donne”. Avere “antenne” di donne in ogni villaggio per farle uscire di casa e farsi strada negli spazi pubblici, al lavoro, nell’educazione, eccetera. Ogni mese con una mia equipe ci dirigiamo verso un villaggio e camminiamo insieme ad una ventina di donne. Sono coinvolte circa duecento persone. È una riconciliazione tra le donne e gli spazi pubblici, è la trasformazione dello spazio pubblico maschile in un luogo dove tutti i cittadini possono trovarsi con pari dignità e rispetto.
Quale messaggio vuole dare all’Italia?
Voglio dire che ci stiamo svegliando anche noi, siamo emancipate e in cammino e abbiamo bisogno di una marcia generale che riunisca tutte le donne del mondo. C’è bisogno di solidarietà femminile e impegno. Sono venuta in Italia per dire a tutte le donne: voi avete avuto accesso a tutti i diritti, non abbassate le braccia!
Ricordate come vivevano le vostre nonne. Bisogna impegnarsi di nuovo: perché se ci si ferma si torna indietro.