Libertà di stampa
Nel 2018 si è vista “una violenza senza precedenti” nei confronti dei giornalisti: 80 omicidi (+ 8% rispetto all’anno precedente). 348 giornalisti detenuti in carcere, la maggioranza in Iran, Arabia Saudita, Egitto, Turchia e Cina. 60 sono stati rapiti. E’ il bilancio compilato ogni anno dall’organizzazione Reporters sans frontières.
Il 2018 è stato un nuovo “anno nero” per i giornalisti e la libertà di stampa nel mondo: sono stati uccisi 80 giornalisti (+8% rispetto all’anno precedente). Di questi, 63 erano professionisti, 13 non professionisti e 4 tecnici. 348 giornalisti sono attualmente detenuti in carcere e 60 sono stati rapiti. Cifre in aumento che dimostrano una “violenza senza precedenti contro i giornalisti”. Più della metà dei giornalisti uccisi sono stati presi di mira intenzionalmente e uccisi. Lo afferma Reporters sans frontières, che pubblica oggi il suo rapporto annuale sugli abusi commessi contro i giornalisti di tutto il mondo.
Picco di violenza nel 2018. “La violenza contro i giornalisti raggiunge un nuovo picco quest’anno – denuncia Christophe Deloire, segretario generale di Rsf -. L’odio contro i giornalisti, pronunciato o addirittura rivendicato da leader politici, religiosi o uomini d’affari senza scrupoli ha conseguenze drammatiche sul campo e si riflette in un preoccupante aumento delle violazioni contro i giornalisti. Espressi sui social network, che hanno una forte responsabilità in questo senso, questi odiosi sentimenti legittimano la violenza, indeboliscono il giornalismo e, con esso, la democrazia, ogni giorno un po’ di più”. L’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul, in Turchia, o del giovane giornalista slovacco Jan Kuciak, hanno messo in luce la sfrenata determinazione dei nemici della libertà di stampa. “La mafia – si legge nel rapporto -, presente in molti Paesi europei, è oggi una delle peggiori minacce per i giornalisti d’inchiesta”.
In Afghanistan si muore di più. Tra i Paesi con più omicidi spicca l’Afghanistan con 15 morti, seguito da Siria (11 giornalisti, tutti siriani) e Messico (9). 8 giornalisti sono stati uccisi anche nello Yemen, che a causa del conflitto è stata definita dall’Onu “la peggiore crisi umanitaria al mondo”. Se non muoiono sotto le bombe, i giornalisti yemeniti vengono maltrattati in carcere, come accaduto a Anwar al Rakan, catturato dagli Houthi un anno fa. E’ morto subito dopo la liberazione per aver sofferto fame, torture e malattie. La metà dei giornalisti sono morti in Paesi in pace. Da notare l’ingresso degli Stati Uniti tra i Paesi più pericolosi al mondo per i giornalisti, con 6 uccisi durante le sanguinose sparatorie contro la redazione di “Capital Gazette” ad Annapolis, nel Maryland. Quest’anno 75 giornalisti sono stati uccisi nel loro Paese di origine, altri 5 mentre effettuavano reportage all’estero. Tra questi, 3 giornalisti russi freelance uccisi da un gruppo di uomini armati nella Repubblica Centrafricana il 31 luglio. Orhan Djemal, Kirill Radtchenko e Alexandre Rasstorgouïev stavano investigando sulla presenza di mercenari appartenenti ad una società militare privata russa conosciuta per le sue attività in Siria. Altri 2 giornalisti ecuadoriani, Javier Ortega e Paul Rivas, del quotidiano El Comercio, sono stati uccisi insieme all’autista dopo essere stati prelevati da un gruppo dissidente delle Farc. Stavano realizzando un reportage a Mataje, luogo di scontri tra narcotrafficanti e autorità.
La più grande prigione al mondo per i giornalisti è la Cina. Anche il numero di giornalisti detenuti nel mondo è in aumento: 348 contro 326 nel 2017, il 7% in più. Come l’anno scorso, 5 Paesi detengono oltre la metà dei giornalisti imprigionati: Iran, Arabia Saudita, Egitto, Turchia e Cina. La Cina rimane la più grande prigione al mondo con 60 giornalisti detenuti, i tre quarti non sono professionisti. Con l’inasprimento delle regole che riguardano internet, vengono rinchiusi in condizioni spesso disumane a causa di un semplice post sui social network o sui servizi di messaggeria privata. Censura, sorveglianza, arresti e detenzioni arbitrarie colpiscono i giornalisti che osano affrancarsi dalla linea ufficiale. Molti sono vittima di torture in carcere e almeno 10 in pericolo di morte nelle carceri cinesi, tra cui Ilham Tohti, nominato al premio Sakharov 2016 e condannato all’ergastolo e Huang Qi, premio Rsf 2004, detenuto senza processo da più di due anni.
60 giornalisti rapiti, +11% rispetto al 2017. Anche il numero di ostaggi è aumentato dell’11% con 60 giornalisti presi in ostaggio, contro i 54 dell’anno scorso. 59 sono detenuti in Medio Oriente (Siria, Iraq e Yemen). Tra loro, 6 sono stranieri. Nonostante la sconfitta dell’Isis in Iraq e suo ritiro dalla Siria, poche informazioni sono filtrate sul destino di questi ostaggi, eccetto il giapponese Jumpei Yasuda che ha ritrovato la libertà dopo tre anni di prigionia in Siria. Un giornalista ucraino è ancora nelle mani delle autoproclamate autorità della “Repubblica popolare di Donetsk” (Dnr) che lo accusano di essere una spia. Tre nuovi casi di giornalisti scomparsi (2 in America Latina e 1 in Russia) sono stati denunciati da Rsf.