Società
Ambiente, migrazioni, diritti umani… Sono tante le sfide comuni che in ogni parte del mondo coinvolgono le popolazioni e riempiono le agende dei governanti. Il rischio è che a soluzioni comuni si preferisca il localismo o le sue degenerazioni – come il populismo o il sovranismo. Ne abbiamo parlato con Vincenzo Buonomo, rettore magnifico della Pontificia Università Lateranense
“Il populismo in un mondo post-globale può essere considerato un riflesso negativo della globalizzazione”. Così Vincenzo Buonomo, rettore magnifico della Pontificia Università Lateranense, cerca di spiegare le ragioni di un fenomeno tornato di moda non solo nella narrazione ma anche nella realtà della politica e che va ampliandosi in tutto il mondo. Giurista, primo laico ad essere nominato alla guida della Lateranense, Buonomo vanta una vasta esperienza internazionale per la conoscenza delle attività di organizzazioni e organismi delle Nazioni Unite.
Professore, che mondo è quello in cui il populismo torna a prendere piede?
Viviamo in un mondo globalizzato per esempio nel profilo economico, ma che è post-globale per tanti aspetti: basti pensare soltanto alla frammentazione in termini politici o geopolitici degli Stati. Ed
è proprio sulla frammentazione che il localismo e le sue degenerazioni – come il populismo, o il sovranismo che dir si voglia – trovano facilmente spazio come possibilità di riappropriarsi di qualcosa di cui una certa globalizzazione ci aveva spogliato.
Una reazione, per alcuni necessaria, direi quasi dovuta; perché ci siamo accorti che tutto ciò che la globalizzazione in qualche modo ci aveva fatto immaginare, alla fine è diventato un modo per escludere.
La globalizzazione volendo unire tutti o volendo unire tutto, di fatto ha escluso. Chi non aveva i parametri necessari per poter partecipare al processo globale è rimasto fuori. Credo che Papa Francesco nella Evangelii gaudium dia chiaramente questo tipo di messaggio: si è esclusi perché non si ha la capacità di poter partecipare, non per mancanza di volontà.
Come si cerca di uscire da questa condizione?
Può esserci proprio il ricorso da una parte al localismo, dall’altra parte a chi nel localismo riesce a essere leader. Questo avviene per senso di smarrimento? Soltanto lo smarrimento porta a credere nel leader o – secondo il termine usato da Papa Francesco – al “messia”? È un interrogativo che dobbiamo porci perché non penso sia una questione destinata a chiudersi nel breve periodo.
Questo è un rischio per la democrazia?
Al di là di populismo e sovranismo, riusciamo ad avere una visione unica della democrazia? Basterebbe fare un tour a livello mondiale per sentire che democrazia è declinata in democrazia partecipativa, democrazia consensuale, democrazia elettorale….
Quando crollò il muro di Berlino nel 1989 si pensò che portare la democrazia in quei Paesi volesse dire libere elezioni: ci siamo resi conto che non è così, ma ce ne eravamo accorti immediatamente. Così com’è successo per il tentativo di dire che la democrazia è un valore esportabile: per quali contesti? Ce ne siamo accorti dopo il 2004 con la destabilizzazione avvenuta nello scacchiere mediorientale.
Le spinte populiste sono una minaccia per la democrazia o un elemento della democrazia?
Ciò che sta succedendo più che leggerlo come degenerazione della democrazia va forse visto come una fase storica che pertanto va vissuta con quel “sano realismo” di cui parla Papa Francesco: è questa la realtà.
La difficoltà che molte volte abbiamo nel leggere il fenomeno attuale è data dal fatto di volerlo rapportare a qualcosa che è già esistito. Credo che questo ci porti anzitutto a perdere del tempo necessario invece per affrontare i problemi. E poi anche a non avere quell’immediatezza di risposta che invece oggi viene chiesta dato che la globalizzazione ci ha abituati ad una cosa: al tempo zero, al tempo reale, o meglio, al non tempo.
Questo che ricadute pratiche ha?
Per esempio che sappiamo perfettamente quali sono le condizioni della povertà, conosciamo in tempo reale quali sono le situazioni di sviluppo e sotto sviluppo nel mondo, o quale sia la situazione per l’ambiente.
Il problema è che non agiamo, spesso per volontà o disinteresse, altre volte perché siamo in qualche modo esclusi dai processi decisionali.
Un approccio che riguarda anche il fenomeno migratorio…
Sulla questione migratoria, rispetto al lavoro di due-tre anni concluso a Marrakech un mese fa il problema non è chi è andato o non è andato. Poniamo la questione in termini diversi: io paragono Marrakech ad una persona che va dal medico il quale gli riscontra una certa patologia e gli dà una ricetta dicendogli “devi seguire questa terapia”. Il medico non obbliga, dice solo di seguire una terapia per curare la patologia. Ma il paziente è libero di seguirla o meno. Stessa cosa è Marrakech, dove sono stati approvati due atti, non vincolanti. È una ricetta, tra l’altro maturata con il concorso di molti, che dice – con tutti i limiti che può avere – cosa fare per affrontare il fenomeno migratorio. Qualcuno ha scelto di non seguire l’indicazione del medico: la patologia potrebbe sparire per tante ragioni, ma nondimeno può anche peggiorare. Da qui nasce il problema di cosa può significare una lettura semplicemente legata al contingente, inteso non come tempo, ma come spazio.
In questo scenario, nel rapporto tra cittadino e potere, tra popolo ed élite, è possibile trovare un equilibrio?
L’equilibrio è sempre difficile, per un motivo molto semplice: tra la persona e il potere non esiste quasi mai un equilibrio in ragione, quantomeno, per la diversa condizione. Chi esercita il potere lo fa in nome del popolo, ma di tutto o di una parte di esso? Questo si registra per quanto riguarda i diritti umani, rispetto i quali si propone una lettura della Dichiarazione Universale che tenga conto degli sviluppi successivi al 1948, ma evitando di rispondere al quesito: i diritti sono interessi di tutti o di pochi? La stessa situazione c’è nel rapporto tra persona e potere, o con un linguaggio andato, tra suddito e potere. In un sistema organizzato intorno all’idea che il potere è servizio, c’è un bilanciamento, e questo evidentemente porta a degli effetti positivi. Ma in un sistema in cui il bilanciamento non c’è per ragioni diverse – per esempio, in un Paese non c’è in un determinato momento storico, pur essendo presente nella Costituzione – è chiaro che assistiamo ad uno sbilanciamento del rapporto persona/cittadino-potere a favore di quest’ultimo.
Un fenomeno che sembra prender sempre più piede nel mondo…
Questa è una questione che riguarda un po’ tutti i Paesi. Perché
per ogni questione – ambiente, migrazioni, diritti umani… – si hanno ormai delle ricette che sono comuni, trattandosi di problemi che hanno ripercussioni comuni. Ma nessuno agisce, pur avendo la possibilità di farlo.
È in questa perdita di collegamento che si gioca il rapporto tra il potere e il cittadino: perché se il potere diventa più forte si ha un populismo del leader, ma se è il cittadino a diventare più forte si ha un populismo di altra natura, quello di massa.