Politica
Dopo una lunga e travagliata gestazione – oltre sei mesi – i due provvedimenti simbolo di questo governo sono arrivati in porto. Due “cavalli di battaglia” dei quali sia i Cinquestelle che la Lega parlavano da anni e che entrambi assicuravano di volere approvare nella prima seduta di governo.
L’ennesima trionfalistica esternazione degli esponenti del governo ha salutato l’approvazione del decreto legge sul reddito di cittadinanza e sulla “quota 100”. Dalle cose più ordinarie a quelle più complesse, siamo oramai abituati a questi proclami: ogni atto che promana dal governo giallo-verde è considerato dai suoi stessi esponenti un fatto “eccezionale”, “un primato assoluto”, un evento che “accade per la prima volta”. Neppure gli statisti – De Gasperi, Einaudi e Moro, solo per citarne qualcuno – che hanno ricostruito l’Italia dalle macerie, reclamavano tanta visibilità per le loro vere “imprese”. Modi diversi di concepire il potere. Ma veniamo ai fatti.
Dopo una lunga e travagliata gestazione – oltre sei mesi – i due provvedimenti simbolo di questo governo sono arrivati in porto. Due “cavalli di battaglia” dei quali sia i Cinquestelle che la Lega parlavano da anni e che entrambi assicuravano di volere approvare nella prima seduta di governo. Quanto alla legge Fornero, Salvini giurava, addirittura, di volerla cancellare! Le cose, come sappiamo, sono andate diversamente: le norme approvate risultano molto ridimensionate rispetto alle iniziali promesse e, in più, la legge Fornero, tanto vituperata, resterà in vita almeno per i prossimi tre anni. Evidentemente, quando le promesse sono tante, non è facile mantenerle tutte. Anche per questo motivo Sturzo, del quale nei giorni scorsi abbiamo ricordato i cento anni del suo “Appello ai liberi e forti”, raccomandava di “promettere poco e mantenere quel che si è promesso”. Approvati i provvedimenti, ora non resta che attenderli alla prova dei fatti, anche se rimangono seri dubbi sulla loro efficacia e sulla loro compatibilità con la situazione economica del Paese. Intanto, per sgombrare il campo da ogni possibile equivoco, è opportuno riconoscere che ogni intervento a sostegno della povertà, compreso il reddito di cittadinanza, è da salutare con favore. Ciò non fa venire meno la necessità di dare spazio a tutte quelle osservazioni fondate e alle tante perplessità che si addensano attorno alle due misure appena varate, a cominciare dalle modalità di erogazione del reddito di cittadinanza considerate draconiane. Più che l’insufficienza dei fondi disponibili, preoccupa la gran mole di adempimenti burocratici posti a carico sia degli utenti che delle strutture amministrative che debbono erogare il servizio. Basta parlare con i nostri figli e nipoti, ad esempio, per avere contezza del caos che regna nei centri per l’impiego, specialmente in quelli del nostro meridione. Eppure proprio queste strutture sono state individuate come centrali nella gestione di questo nuovo servizio che vuole combinare insieme povertà e lavoro.
Basti considerare che i tre quarti (circa 2 milioni) delle persone in povertà assoluta sono soggetti che per le loro condizioni – minori, inabili, anziani,etc – non possono essere inserite nel mondo del lavoro. Altro che nuovo strumento di welfare state, come afferma Di Maio! C’è il rischio di cadere nel caos! Anche perché – ed è questo un altro punto debole – l’avviamento al lavoro non avviene più come una volta. Le imprese non fanno più richieste di lavoro generico – un operaio, un fattorino etc- assumono dopo avere esaminato le persone e averne verificato il possesso dei requisiti. E ancora, in un momento di crisi economica – la Banca d’Italia parla di pericolo di recessione – non si può chiedere a un imprenditore di assumere ora e subito a tempo indeterminato, se non ha il sentore di quello che potrà accadere, almeno, da qui ad un anno. Tutte da verificare, quindi, le previsioni del governo che parlano di un aumento dell’occupazione grazie al reddito di cittadinanza. Non solo perché il lavoro non si crea per decreto, ma perché con queste misure il rischio è che aumenti il lavoro nero. Che cosa diciamo ai tantissimi giovani che oggi lavorano per 600 euro al mese, quando restando a casa possono prenderne 780? Si dice, che non possono rifiutare per tre volte un’offerta di lavoro. Ma se ci fosse tutto questo lavoro, pagato dignitosamente e non a 600 euro al mese, ci sarebbe stato bisogno del reddito di cittadinanza? Accogliere con favore una legge che volge lo sguardo verso i poveri non preclude il dovere di pensare e di aiutare i lettori a farlo.
(*) direttore de “La Vita diocesana” (Noto)