Società
Se ci abituassimo alla nobiltà del ringraziamento – sentito e autentico, mai per tornaconto – porremmo un tassello ulteriore per far risplendere la bellezza del mosaico della civiltà dell’amore, traguardo di una vita aperta al messaggio di fraternità e carità cristiana
Dire grazie ha un costo? Direi di sì, alla luce di quanto sia difficile che una persona si esprima normalmente, e di cuore, con questo vocabolo: non solo difficile – tra mille trabocchetti e giustificazioni – anche ostativo, soprattutto quando ringraziare costa, non in termini monetari bensì di umana espressione.
C’è un costo che grava sui rapporti interpersonali, lo si avverte nella permanente difficoltà a rompere schemi di antica autosufficienza. Sembra addirittura che il ricorso alla parolina ‘grazie’ sia un vincolo alla libertà, se non un limite alla propria autorevolezza e personalità. Come un venir meno a se stesso, non volendo in nessun modo correre il rischio di sentirci… debitori.
Si trovano e si inventano tutte le scuse possibili pur di evitare l’uso di una disponibilità che parrebbe interrompere o mettere in forse l’orgogliosa vanità che opprime ma non si vuole per niente riconoscere: si preferisce perpetuare l’infingimento piuttosto che dare all’altro – cui potremmo essere debitori – la soddisfazione di sentirsi gratificato. Chiusi nell’orgoglio dell’io egoistico, dimentichiamo presto sia chi merita il grazie, autoassolvendoci con la tipica frase “perché devo dirgli grazie, è come se gli dovessi qualcosa…” sia le motivazioni originali sul perché della doverosa abitudine alla riconoscenza.
Sia chiaro, il grazie non è obbligatorio e nemmeno superfluo, è un gesto, un comportamento, una voce, una sensibilità, un’educazione, un “animus”, soprattutto un valore. Capisco che quest’ultimo aspetto sia in piena decadenza in questi tempi di prepotente protagonismo e di autocompiacimento della propria bravura, esperienza e competenza tuttologa: scorriamo un po’ i social e ce ne rendiamo amaramente conto. Cerchiamo di uscirne, se ce la facciamo.
Chiediamoci: perché stentiamo a porci – senza moralismi né platealismo, limitandoci ad un criterio di personale considerazione – un modesto interrogativo sul nostro agire? Pensiamo che tutto sia dovuto? Eppure quanto sarebbe motivo di gioia genuina esprimere un grazie non formale, partecipando alla condivisione di una comune assonanza.
Se ci abituassimo alla nobiltà del ringraziamento – sentito e autentico, mai per tornaconto – porremmo un tassello ulteriore per far risplendere la bellezza del mosaico della civiltà dell’amore, traguardo di una vita aperta al messaggio di fraternità e carità cristiana.
(*) già direttore “Il Popolo” (Treviglio)