Venticinque anni dopo

Don Peppe Diana. Mons. Spinillo (Aversa): “Con la sua indimenticabile febbre da prete voleva rinnovare la società”

Il 19 marzo 1994 don Peppe Diana, sacerdote della diocesi di Aversa, è ucciso dalla camorra, mentre stava per celebrare la messa, nella parrocchia San Nicola di Bari a Casal di Principe. Era, infatti, “la punta di diamante, l’apice, di quella sensibilità che stava crescendo nella Chiesa di contrasto forte alla criminalità organizzata”, che si concretizzò anche nel documento del Natale 1991, “Per amore del mio popolo”. Del martirio di don Peppe e dei frutti buoni che sta dando per una vita migliore in quelle terre ci parla il vescovo Angelo Spinillo

Venticinque anni. Sono gli anni passati dal giorno – 19 marzo 1994 – dell’omicidio di don Peppe Diana, sacerdote della diocesi di Aversa, per mano della camorra, mentre nella chiesa di San Nicola di Bari, a Casal di Principe, alle 7,30 del mattino, si preparava a celebrare la messa. Anche quest’anno, come negli ultimi tempi, il vescovo di Aversa, mons. Angelo Spinillo, sarà nella parrocchia di San Nicola di Bari, a Casal di Principe, il 19 marzo, per celebrare la messa proprio alle 7,30 e così ricordare il martirio del sacerdote, che, nella sua giovane vita – quando l’hanno ucciso ancora non aveva compiuto 36 anni -, si era speso, nel nome del Vangelo, per i giovani, gli ultimi, gli immigrati e contro il cancro della camorra. A mons. Spinillo chiediamo quanto quel sacrificio non sia caduto nel vuoto e come quelle terre stiano rinascendo proprio nel nome di don Diana.

Sono passati 25 anni da quella tragica mattina: cos’è cambiato in quelle terre che un tempo era il regno dei casalesi?

Da allora sono andati crescendo una consapevolezza e un desiderio di maturare nella partecipazione civile

attraverso forme di associazionismo e cooperative che, grazie agli input di Libera e dei comitati che sono nati, sono sorte sul territorio, permettendo lo sviluppo di tante attività definitivamente sganciate da fenomeni di sottomissione alla malavita organizzata e, allo stesso tempo, facendo crescere nella nostra società civile un più ampio senso di legalità e un desiderio di migliore dialogo con le istituzioni. A questa animazione sociale e civile ha partecipato anche la realtà ecclesiale.

E cosa è cambiato nella Chiesa in questi anni?

L’azione che don Peppe sentì di dover iniziare contro forme di prepotenza malavitosa era un sentimento vissuto da un’intera comunità. Non è un caso che il documento a cui si fa sempre riferimento, “Per amore del mio popolo” del Natale 1991 sia stato firmato da tutti i parroci della forania. In quel momento era una sensibilità di Chiesa che andava a sviluppare una proposta di modo diverso di vivere nella società. C’erano una vera stanchezza e una vera sofferenza per tanti omicidi che stavano purtroppo avvenendo nel territorio. Questo ha fatto scattare la molla di reagire, già c’erano state alcune manifestazioni contro la camorra. Dopo è stato scritto il documento del 1991. In questo movimento erano coinvolti anche vescovi delle diocesi vicine, c’era tutto un fermento di cui

don Diana era la punta di diamante, l’apice, colui che in qualche modo è stato un segno di contraddizione.

Era un sacerdote scomodo?

Non era un prete scomodo all’interno della Chiesa, anche se voleva forse un’azione più incisiva da parte della Chiesa, ma questo faceva parte del suo carattere un po’ irruento.

Lei nella lettera pastorale che a novembre scorso ha dedicato al 25° dell’assassinio parla di santa inquietudine per don Peppe…

Sì, è così. Anche Papa Francesco dice che i cristiani, che per vocazione sono tutti chiamati alla santità, devono sentire questa santa inquietudine per cui non si accontentano e non si rassegnano alle situazioni negative, ma portano in esse sempre un fermento di vita nuova. La Chiesa ha continuato questo cammino iniziato da don Peppe, spesso nel silenzio, a volte con qualche incomprensione, ma sempre sviluppando la sua azione pastorale e educativa, attenta a proporre la luce del Vangelo a tutti.

Il martirio di don Diana sta dando buoni frutti?

Già san Giovanni Paolo II nell’Angelus di domenica 20 marzo 1994, all’indomani dell’uccisione di don Peppe, aveva parlato del chicco di frumento che cade nella terra, poi germina e porta molto frutto buono. Il tema del chicco di frumento riferito al martirio di don Diana è tornato spesso in questi venticinque anni perché frutti buoni ne ha portati.

Dopo la morte di don Peppe sono stati fatti molti tentativi di infangare la sua persona e la sua memoria: ora è tutto chiarito?

Sì, le sentenze del Tribunale in maniera inequivocabile, definitiva e chiara hanno smascherato i motivi della sua uccisione. I tentativi di depistaggio infangando la vittima sono tipici della malavita organizzata che cerca di far perdere le sue tracce quando colpisce a morte qualcuno.

Che sacerdote era don Diana?

Anche se non l’ho conosciuto personalmente, ne ho sentito tanto parlare. Credo che sia stato un sacerdote che ha voluto essere fedele, non gli sarebbero mancate le occasioni per fare diversamente; e in questo suo impegno ha avuto un grande moto di reazione quando ha iniziato a chiedersi quanto fosse ingiusta l’uccisione di innocenti solo perché alcuni volevano affermare un loro dominio sul territorio. Da qui don Peppe ha sviluppato le sue parole, la sua azione, la sua presenza sul territorio. Come persona, da quello che ho sentito raccontare, era inquieto, molto ruvido a volte nei modi e nello stesso linguaggio, ma autentico come sacerdote. A me è piaciuta molto una definizione che ho trovato in un giornale a pochi giorni dalla sua morte: sacerdote “con la passione di scontrarsi con gli altri e di viverci insieme”, con

“un’indimenticabile febbre da prete”.

La scelta della camorra di uccidere don Peppe in chiesa, mentre si apprestava a celebrare la messa, nel giorno del suo onomastico è stata voluta per colpire il prete?

Non possiamo non confrontare gli omicidi di don Pino Puglisi, che venne ucciso nel giorno del suo compleanno, e di don Peppe Diana, ammazzato nel giorno dell’onomastico, al mattino, mentre stava per celebrare la messa. Io credo che certe scelte di luoghi e di tempi non siano mai casuali per chi vuole dare un segnale, attraverso un omicidio, a un’intera società.

Oggi cosa può dire ai giovani, ma non solo, la figura di don Diana?

Ci dice che dobbiamo essere attenti alla vita della società, a essere partecipi e protagonisti di ciò che la realtà ci propone, essendo persone che riconoscono da lontano i segni positivi, per svilupparli verso la loro pienezza, e anche quelli negativi, a cui bisogna porgere gli argini necessari.

La gente che oggi ricorda don Peppe vuole essere protagonista della vita sociale e civile

e non disperdere la possibilità grande di essere cittadini consapevoli.

L’impegno civile di don Peppe è da considerarsi sempre legato al suo essere sacerdote?

Certamente, anche quando scriveva degli articoli con cui parlava con forza ai candidati alle amministrative e alle politiche nazionali metteva sempre in luce il suo essere prete, non schierandosi come un appartenente a un partito, ma con il desiderio di gridare dai tetti: don Peppe utilizzava questa frase del Vangelo per dire che bisognava gridare dai tetti ciò che è giusto, ciò che è fonte di vita nuova per questa terra. Don Peppe aveva quest’ansia di rinnovamento del vivere della nostra società.