Politca

Oltre le tifoserie

Le tifoserie vanno bene e sono legittime, ma ad un certo punto bisogna anche – come dice il cardinale Bassetti – trovare una sintesi, un minimo comun denominatore che faccia crescere la comunità nel suo insieme, facendo cogliere che il “noi” viene prima delle rispettive tifoserie. Solo così il “capitano” di una squadra può ambire anche a diventare un uomo di Stato

Il congresso mondiale delle famiglie si terrà a Verona a fine marzo. Da settimane montano le polemiche per un appuntamento il cui approccio sembra fatto a posta per alimentare lo scontro. L’esito è, purtroppo, forse già scritto. Dopo le polemiche al calor bianco le tante famiglie concrete resteranno ancora senza le risposte attese (da troppo tempo).
Al riguardo il presidente della Cei, cardinale Bassetti ha ricordato che “la famiglia non è una squadra di calcio (!!), è una realtà fondamentale che, anche partendo da sensibilità diverse, deve vederci uniti” e ha criticato chi si accapiglia e si divide accecati da ideologie. “Questo – ha detto – è il tempo della sintesi, del trovare soluzioni comuni”. Per il card. Bassetti, il problema “è che trasformiamo la famiglia in un’occasione di scontro e non di incontro. Da una parte chi la usa per legittimare le discriminazioni e le divisioni, dall’altra chi la considera ormai superata e retrograda… Ma in mezzo ci sono le famiglie vere, quelle che chiedono risposte”.
Giriamo pagina altro tema e altre polemiche. Riguardano la possibilità di riconoscere (finalmente) anche nel nostro Paese lo ius soli, ovvero la cittadinanza (a certe condizioni) a chi nasce sul suolo italiano da genitori stranieri. Il tema è tornato di grande attualità dopo la proposta di concedere la cittadinanza a Ramy, il ragazzino egiziano che ha dato l’allarme dal bus sequestrato e poi incendiato a San Donato Milanese.
Già nella scorsa legislatura, a guida Centrosinistra, l’allora Pd renziano aveva rinunciato a portare fino in fondo l’impegno su questa materia per puro calcolo elettorale. Oggi il vicepremier Salvini ha avvisato (in contrasto con il suo omologo Luigi Di Maio) che il tema non potrà essere portato alla discussione in Consiglio dei ministri. E così la questione di come favorire l’integrazione dei ragazzi nati e cresciuti in Italia ma con genitori immigrati (una misura di civiltà) è sacrificata sull’altare della guerra a bassa intensità che da settimane si registra tra i due leader giallo-verdi. Il problema non si risolve e resta a disposizione della prossima partita tra le rispettive tifoserie.
Noi italiani, si sa, d’altra parte, amiamo tifare. Anzi per la precisione: dividerci e tifare. Fa parte in qualche misura del nostro Dna e della nostra storia almeno da quando nel Basso Medioevo (tra il XXI e il XIV secolo) nella penisola italica si fronteggiavano i Guelfi e i Ghibellini. E non è un caso che il calcio, spesso sia usato come metafora del Belpaese.
La tifoseria porta con sé , peraltro, il fatto che in non poche occasioni è più importante contrapporsi all’avversario che la questione in sé stessa. In alcune occasioni (come le due citate in apertura) sorge il dubbio che l’interesse non sia un determinato tema, quanto piuttosto poterlo usare strumentalmente, per aizzare la propria claque, attaccare l’avversario, creare confusione e alzare il livello dello scontro. La preoccupazione non è quella di raggiungere qualche risultato. Anzi, tanto più, su certi argomenti, non si ottiene nulla, tanto più il tema resta in campo, pronto, per fornire altro carbone da ardere, nel fuoco della polemica politica.
Il problema è che le tifoserie vanno bene e sono legittime, ma ad un certo punto bisogna anche – come diceva il cardinale Bassetti – trovare una sintesi, un minimo comun denominatore che faccia crescere la comunità nel suo insieme, facendo cogliere che il “noi” viene prima delle rispettive tifoserie.
Solo così il “capitano” di una squadra può ambire anche a diventare un uomo di Stato.

(*) direttore “La Voce dei Berici” (Vicenza)