Liberazione
Quella del 25 Aprile è la festa della liberazione di un intero popolo, ma è anche un invito a riflettere sul nostro passato, non così lontano, segnato da ferite – come appare evidente anche oggi – non ancora del tutto rimarginate. Se è vero che è tempo di deporre una certa retorica e di smetterla di leggere la storia da un unico punto di prospettiva, è decisamente pericoloso ignorare il significato della festa della Liberazione e degli eventi che l’hanno resa possibile
Ad attendere Sergio Mattarella, al teatro Da Ponte di Vittorio Veneto, lo scorso 25 aprile c’era una sala gremita. Il pubblico, in un’attesa silente quasi religiosa, è esploso in uno spontaneo applauso quando il Presidente della Repubblica ha fatto il suo ingresso. I discorsi, che hanno preceduto quello di Mattarella, hanno manifestato una sorprendente sintonia: anche quelli che provenivano da schieramenti politici diversi. Si è resa giustizia alla storia e si è dato voce alla molteplicità delle anime che hanno vissuto da protagoniste la liberazione. “In realtà – ho pensato – non dovrebbe essere proprio così? Il 25 Aprile non dovrebbe essere la festa di tutti gli Italiani – di destra e di sinistra, se queste categorie hanno ancora senso – che festeggiano insieme la fine della guerra e l’arrivo della liberazione?”. Tra l’altro, tale festa è stata istituita nel 1946 su proposta dell’allora presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, esponente – com’è ben noto – della Democrazia Cristiana: successivamente nel 1949 è stata istituzionalizzata quale festa nazionale. L’impressione è che oggi quelli che sono i simboli di una nazione – e, come tali, dovrebbero essere motivo di unità – rischiano di essere interpretati come motivo di divisione. Festeggiare il 25 Aprile viene inteso da alcuni come “partigianeria” ed espressione di un legame con un preciso schieramento politico.
Mettere la bandiera italiana al balcone della propria casa rischia di essere letto non come segno di affetto nei confronti del proprio Paese – e dunque nei confronti di tutti gli Italiani –, ma come disinteresse per il proprio territorio o per la propria Regione di appartenenza. Da qui i crescenti segnali di disaffezione da parte di singoli cittadini: si veda il recente scempio delle bandiere italiane, che erano state affisse lungo le strade di Tarzo. Disaffezione talora anche di figure istituzionali: vi è chi snobba le celebrazioni del 25 Aprile e chi evita di porre – insieme alla bandiera della Regione Veneto – quella dell’Italia (e quindi, men che meno, quella dell’Europa). La Resistenza, che affiancò le forze alleate, assolutamente indispensabili per la liberazione dell’Italia, non ebbe soltanto luci ma anche qualche ombra. Solo per citare un episodio ancora vivo nella memoria di molti opitergini, è impossibile dimenticare la sorte di oltre un centinaio di prigionieri – delle brigate fasciste ma anche giovanissimi allievi ufficiali – radunati presso il collegio Brandolini, che furono passati per le armi nonostante i tentativi di mediazione delle autorità locali (anche di mons. Visintin, abate di Oderzo). Furono giorni drammatici, quelli tra la fine del ’43 e il maggio del ‘45, in cui avvennero anche rese di conti e prove di forza tra le diverse fazioni politiche, assumendo i toni – come ha ricordato la docente di storia moderna Giulia Albanese – di una vera e propria “guerra civile”. Questo tuttavia non giustifica affatto alcun revisionismo del Ventennio, né un giudizio negativo in toto su ciò che è stata la Resistenza, che ha saputo esprimere quei valori grazie ai quali l’Italia si è rialzata e da cui sono nate la Costituzione e la democrazia repubblicana. La festa del 25 Aprile è la festa della liberazione di un intero popolo, ma è anche un invito a riflettere sul nostro passato, non così lontano, segnato da ferite – come appare evidente anche oggi – non ancora del tutto rimarginate. Se è vero che è tempo di deporre una certa retorica e di smetterla di leggere la storia da un unico punto di prospettiva, è decisamente pericoloso ignorare il significato della festa della Liberazione e degli eventi che l’hanno resa possibile. Ha fatto bene Francesca Meneghin, nella conclusione del suo discorso, a chiedere ai docenti delle scuole medie e superiori di non trascurare di insegnare questa parte della storia italiana, perché i rischi di tale ignoranza sono sotto gli occhi di tutti. Se questo appello è quanto mai urgente per i nostri giovani, a nostro avviso lo è ancora di più per gli adulti e per chi ricopre una carica istituzionale.
(*) direttore “L’Azione” (Vittorio Veneto)