Ordinazione sacerdotale
In un tempo in rapida trasformazione, come quello di oggi, il rischio più grave che corre il prete è quello di smarrire la propria identità e di perdere il senso del suo agire. Pur spinto da ottime motivazioni può fare troppo e perdersi in un attivismo sterile o – di converso – chiudersi in se stesso e cercare comode forme compensative. Il pericolo che incombe sul presbitero è quello di non vedere più il bene che fa e che può fare. Già, anche il prete oggi può fare tanto del bene a chi gli è affidato, ma – lui per primo – deve saperlo riconoscere e chiamare per nome
Sabato prossimo in cattedrale sarà ordinato presbitero un giovane diacono della nostra diocesi: don Luca. Per una diocesi come la nostra, piuttosto piccola, il fatto si configura come un evento. Certo, un’ordinazione sacerdotale è poca cosa rispetto alle esigenze delle comunità diocesane, ma in ogni caso è un dono prezioso e un piccolo miracolo. Un miracolo, sì, perché sui giovani di oggi l’immagine del prete – dobbiamo ammetterlo – non ha più l’appeal, il fascino, la forza attrattiva di un tempo. Il prete oggi si presenta come una “figura umile”, la cui autorevolezza deve essere ogni volta “riconquistata” sul campo, perché non è più un dato di fatto, garantito dalla tradizione e da una certa religiosità devozionale, a volte solida e vissuta virtuosamente. Ora il prete deve dimostrare il suo valore in chiesa, in oratorio, nelle relazioni con le persone, con quello che dice, con quello che fa, soprattutto con quello che è. Non c’è più spazio per le “finte” e non esiste più la “forza d’inerzia” della tradizione che giustifica e dà significato, quasi da sola, ad un ruolo, ad una missione, ad una vocazione. Certo, un po’ dispiace: per chi era abituato al rispetto e alla riverenza di un tempo, riservati al “sior Piovàn”, i tempi attuali sembrano una iattura. Insieme al potere – e questo è decisamente un bene – è andata persa anche una certa “aura” spirituale e poetica che “proteggeva” l’uomo di Dio, lo staccava dal resto del popolo e gli conferiva una identità assolutamente definita. Oggi non è più così. Il prete è in mezzo alla gente, senza filtri e senza barriere, così come lo sono le altre persone. Con o senza veste, il risultato è lo stesso: il prete è sul “campo di battaglia” della vita, come tutti gli altri, e come in ogni campo di battaglia a volte si vince e a volte si perde. Proprio come tutti. Il tempo in cui viviamo consegna il prete alla sua umanità, insieme fragile e preziosa: una consegna totale, senza sconti. Da questo punto di vista, il nostro è senza dubbio un tempo di grazia, difficile e scarnificante, ma anche bello e affascinante perché umanissimo.
Tuttavia – è chiaro – non basta che il prete sia “umano”: ogni persona è chiamata ad essere tale. Al prete è chiesto di portare Gesù ai fratelli e alle sorelle che gli sono affidati attraverso le forme che gli sono proprie. Anche in questo suo compito a volte riesce e a volte fallisce: è un fatto che va accettato. In un tempo in rapida trasformazione, come quello di oggi, il rischio più grave che corre il prete è quello di smarrire la propria identità e di perdere il senso del suo agire. Pur spinto da ottime motivazioni può fare troppo e perdersi in un attivismo sterile o – di converso – chiudersi in se stesso e cercare comode forme compensative. Il pericolo che incombe sul presbitero – mi sembra – è quello di non vedere più il bene che fa e che può fare. Già, anche il prete oggi può fare tanto del bene a chi gli è affidato, ma – lui per primo – deve saperlo riconoscere e chiamare per nome. A volte si tratta di cose molto semplici, piccole cose belle che danno sapore e gusto alla sua vita: una predica riuscita che ha toccato il cuore di qualcuno dei presenti; una confessione in cui il penitente avverte il passaggio della misericordia di Dio; un momento di preghiera vissuto in semplicità che fa assaporare il senso di famiglia della comunità; un articolo, scritto bene, sul foglietto parrocchiale; un incontro con una persona, magari casuale e affatto imprevisto, che rivela inaspettate ricchezze umane e spirituali… Se il prete, pur in mezzo a tante fatiche e contraddizioni, riesce a vedere il bene che nel suo ministero gli è dato di compiere, mettendosi semplicemente al servizio del Vangelo, vivrà una vita intensa e ricca: una “benedizione” per sé e per gli altri.
(*) direttore “L’Azione” (Vittorio Veneto)