Ue e fenomeno migratorio
Il dibattito suscitato dalla vicenda della Sea-Watch 3 riaccende i riflettori sul trattato di Schengen e sul regolamento di Dublino. Superarli potrebbe provocare un “big bang” interno al continente con possibili ricadute sulla libera circolazione dei cittadini e pesanti riflessi economici. Alla politica spetta quindi il compito di trovare una soluzione che porti a una solidale e obbligatoria condivisione delle responsabilità e del peso delle migrazioni fra tutti i Paesi Ue
È un buona idea sospendere gli Accordi di Schengen? E disapplicare il regolamento di Dublino evitando di identificare i migranti che arrivano dal Mediterraneo? Oppure alzare un muro, o una barriera fisica, verso la Slovenia per stoppare la “rotta balcanica”? Sono ipotesi sollevate dal ministro degli Interni, Matteo Salvini, sollecitate in particolare dal caso Sea Watch 3, ma legate a una più generale preoccupazione di protezione delle frontiere anche italiane da flussi migratori incontrollati. “Non vorrei ricorrere a non identificare i migranti che sbarcano in Italia, così che possano tranquillamente andare in altri Paesi europei”, ha dichiarato in queste ore Salvini, con la volontà di disapplicare le norme sull’asilo contenute nel Regolamento di Dublino. Uguale determinazione è emersa circa la possibilità di sospensione Schengen. “Si è riaperta la rotta balcanica, a luglio partiranno i pattugliamenti misti con gli sloveni, ma se il flusso di migranti non dovesse arrestarsi, non escludiamo – ha specificato il ministro – la costruzione di barriere fisiche alla frontiera, come fatto da altri Paesi europei”.
Fin qui la cronaca. Ma di cosa si sta parlando esattamente? Partiamo da Schengen, trattato internazionale firmato nel 1985, recepito da un Regolamento Ue dal 2006, poi più volte modificato. Il trattato permette la libera circolazione delle persone all’intero dei 26 Paesi firmatari (22 Ue più Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera), 29 se si considerano anche
Principato di Monaco, San Marino e lo Stato Vaticano, mentre dovrebbe accrescere i controlli di frontiera verso l’esterno. Si può “sospendere” la libera circolazione tra i 26, ripristinando i controlli doganali? Sì, lo prevede lo stesso trattato: “in caso di minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna di uno Stato membro” è possibile “in via eccezionale ripristinare il controllo di frontiera in tutte le parti o in parti specifiche delle sue frontiere interne per un periodo limitato della durata massima di trenta giorni o per la durata prevedibile della minaccia grave se questa supera i trenta giorni”. Per “circostanze eccezionali” la proroga può dunque avere durata massima di due anni. La Commissione europea attesta che dal 2006 Schengen è stato sospeso un centinaio di volte, soprattutto in casi particolari, come lo svolgimento di qualche summit internazionale per ragioni di sicurezza, oppure per motivi legati alla lotta al terrorismo o al controllo dei flussi migratori. Negli ultimi anni Schengen è stato sospeso, ad esempio, in Francia, Germania, Austria, Norvegia, Svezia, Danimarca e anche in Italia.
Quando si reintroducono i controlli ai confini (compresi ovviamente stazioni ferroviarie di frontiera, aeroporti, porti), occorre notificare la decisione alle autorità Ue e agli altri Stati aderenti all’area Schengen. Se la Commissione europea valuta che non esiste tale necessità, può chiedere al Paese membro di tornare sulla sua decisione, oppure di limitare il periodo dei controlli o, invece, portare il governo dello Stato a risponderne presso la Corte di giustizia Ue. In tutti i casi di ripristino dei controlli diventa più difficile, anche per i cittadini dello Stato che sospende l’applicazione del trattato, uscire e rientrare nel proprio Paese: la verifica dei passaporti diventa puntuale, i movimenti per lavoro e per turismo ne risentono.
Non meno complessa l’idea di disapplicare le normative di Dublino. Di fatto si contravverrebbe a una normativa contenuta in un atto giuridico dell’Ue che regola il controllo di chi arriva alle frontiere esterne dell’Unione europea chiedendo asilo o protezione internazionale. Dublino stabilisce che sia il Paese di primo accesso a svolgere questo compito, a tutela della sicurezza interna di tutta l’Ue. È altrettanto vero che tale regola grava soprattutto sui Paesi più esposti ai flussi migratori, con in testa quelli che, come l’Italia, si affacciano sul Mediterraneo, oppure quelli che confinano con i Paesi balcanici esterni all’Ue, o Stati Ue che hanno frontiere con Russia, Bielorussia, Ucraina, Moldova, Turchia.
Quali, dunque, gli aspetti potenzialmente negativi se si dovesse forzare la mano su Schengen o Dublino? Anzitutto, nel breve periodo, il fatto che le stesse misure potrebbero essere assunte da tutti gli altri Stati interessati, creando un “big bang” interno al continente, con frontiere bloccate e reciproche chiusure, ricadute sulla libera circolazione dei cittadini e pesanti riflessi economici in relazione ai movimenti import-export. Un irrigidimento di questo tipo potrebbe poi avere riflessi nel medio-lungo periodo, con la sospensione del difficile dialogo, avviato in sede Ue, per la riforma dello stesso Regolamento di Dublino, senza peraltro assicurare l’immediato semaforo rosso alle pressioni migratorie che giungono da Africa e Medio Oriente.
Dunque, non ci sono soluzioni? In realtà ancora una volta emerge il ruolo della politica che, con progetti di ampio respiro, arte diplomatica e alleanze costruite con equilibrio e pazienza, punti nel breve periodo ad accordi bilaterali di ricollocamento dei migranti (compresi quelli presenti sulla Sea Watch 3), e alla moltiplicazione dei cosiddetti “corridoi umanitari”. Inoltre, guardando più in là, si conferma la necessità di insistere in sede comunitaria, su diversi altri fronti: l’ipotizzata, e non impossibile, revisione di Dublino, che porti a una solidale e obbligatoria condivisione delle responsabilità e del peso delle migrazioni fra tutti i Paesi Ue; la conseguente costruzione di una politica comunitaria delle migrazioni (che oggi – va sempre ribadito – non è prevista nei trattati Ue); l’avvio di una linea politica di accessi legali e controllati nell’Ue da parte di cittadini di Paesi terzi; non da ultima, una vera politica di cooperazione allo sviluppo con i Paesi di origine e di transito delle migrazioni, così da aiutare quelle nazioni finalmente a crescere economicamente e socialmente, libere da miseria, instabilità e guerre, per tagliare la strada alle stesse migrazioni forzate.