Sisma tre anni dopo/2
Dal 10 febbraio scorso Norcia ha riabbracciato la comunità delle monache benedettine del monastero di Sant’Antonio. Costrette a lasciare il cenobio reso inagibile dal sisma del 2016, sono tornate per riedificarlo e hanno accettato la sistemazione in un container posto nel giardino non distante dalle macerie di quella che era la loro casa. “Siamo fortemente convinte – dicono – che ci sarà un futuro, la storia ce lo insegna. Preghiamo per questo. È un segno di vicinanza alle persone di Norcia. Pregare qui con e in mezzo alla nostra gente è un modo per trasmettere fiducia e speranza”. La ricostruzione morale prosegue senza sosta.
“Siamo tornate per dare un segno di speranza alla gente che è molto provata, ma soprattutto per pregare con loro e per loro. Anche nella provvisorietà. Qui siamo nate e qui è la nostra vita”. Madre Caterina Corona è l’abbadessa della comunità delle monache benedettine del monastero di Sant’Antonio a Norcia. Tre anni fa il terremoto del 24 agosto delle 3.36, seguito, due mesi dopo, da quello più devastante delle 7,41 di domenica 30 ottobre. La chiesa di san Benedetto non regge alle scosse e viene giù. Lo stesso accade per la vicina concattedrale di Santa Maria Argentea, per la sede comunale e per tantissime case e abitazioni della Valnerina. Anche il monastero di Sant’Antonio crolla obbligando la comunità monastica a trovare rifugio presso le consorelle di Santa Lucia a Trevi. Una sorta di esilio forzato che non ha affatto reciso il legame con la città che dura dal 1412, anno del riconoscimento della comunità monastica. Il 10 febbraio di quest’anno, festa di Santa Scolastica, le otto monache della comunità, guidate da madre Corona, sono rientrate a Norcia per stabilirsi in un modulo abitativo adattato a monastero e posizionato nel giardino della struttura ex Santa Pace, di proprietà delle religiose.
Tornare per restare. Sulla porta d’ingresso campeggia un cartello: “Pax. Monastero Benedettine di S. Antonio. Benvenuti”. Il tempo di varcare la soglia ecco mostrarsi il ‘nuovo’ monastero, bianco, circondato da un giardino dove le monache hanno messo a dimora alcuni fiori e piante officinali, “donate – rivela la badessa – dalla gente di Norcia”. “Ripartiamo da qui, nel silenzio, nella preghiera e nel lavoro, come ci indica il nostro Patriarca Benedetto. Siamo rientrate per dare un segno di speranza alla gente – ripete la religiosa – perché tutte le volte che tornavamo a Norcia prendere qualcosa dal monastero inagibile tanta gente ci chiedeva se fossimo per tornate restare. Una richiesta continua che è diventata stimolo per tornare e condividere la stessa sorte delle famiglie. Queste riedificano la loro casa, noi il nostro monastero. Così, in attesa di riavviare il nostro cenobio, abbiamo accettato un container collettivo che abbiamo posto in questo giardino. Lo abbiamo fatto ben sapendo che sarebbe stata una sistemazione non di un giorno e nemmeno di un anno”.
Passato che rivive. Il passato è ormai alle spalle ma questo non impedisce a suor Caterina di rivivere i momenti del sisma, la prima scossa di agosto e poi l’altra, devastante, di ottobre. “Le cose passate per quanto dolorose se si possono raccontare non sono così penose. Siamo vivi e ringraziamo Dio per questo. Abbiamo vissuto giorni di dolore e di smarrimento, non ci si rendeva nemmeno conto della situazione che stavamo vivendo, almeno i primi giorni”. Poi la presa di coscienza: “sono fenomeni che si verificano nella storia. Se Dio ha permesso tutto ciò ci sarà un motivo. Ciò che ci siamo dette subito è stato di prendere questo evento come un’opportunità offerta dal Signore per una riflessione. C’è sempre un insegnamento da trarre da quanto accade”.
“Dov’è l’opportunità?” chiedo. “È la stessa gente terremotata che ce la indica. Ci dicono: stavamo tanto bene prima. Ma ce ne accorgiamo adesso”. L’opportunità offerta dal sisma “è saper godere di ciò che si ha, anche se è poco. Il terremoto ci sta insegnando che possiamo fare a meno di tante cose e che si vive bene ugualmente. Non la cupidigia ma la sobrietà e l’essenzialità.
Capire questo ci rende persone libere. A volte il desiderio di tante cose non ci fa vivere. Recuperare l’essenzialità è un qualcosa che coinvolge anche chi non crede”.
Un legame più saldo. Da quando le monache sono tornate a beneficiarne è il rapporto con la gente di Norcia che si è rinsaldato.
“Quello che sembrava potessimo dare noi a loro, sono loro che lo danno a noi”
dice sorridendo madre Caterina. “In tanti vengono qui in monastero a chiedere se abbiamo bisogno di qualcosa, se stiamo bene. Si preoccupano per noi e questa cosa ci commuove. Abbiamo trovato una grande fede. Dopo l’evento sismico ci siamo ritrovati tutti vivi e la comunità locale ha vissuto questa cosa come una grazia del Signore. La gente ci porta piante e fiori per abbellire il container, della frutta per confezionare le marmellate”. Ora et labora, prega e lavora, recita il motto benedettino. “Cerchiamo di lavorare come prima del sisma. Non solo per il sostentamento ma anche per vivere come creature di Dio. Nel monastero avevamo l’ospitalità, la legatoria e gli alveari. Questi ultimi ora sono stati trasferiti in campagna mentre per l’accoglienza di ospiti e per la legatoria non abbiamo più la possibilità. Camere e macchinari sono distrutti.
Desiderio di ricostruire. Essenzialità, sobrietà, vicinanza sono mattoni di una ricostruzione morale che sembra andare più veloce di quella materiale. “Siamo fortemente convinte che ci sarà un futuro, un avvenire, la storia ce lo insegna. Preghiamo per questo. È un segno di vicinanza alle persone di Norcia e delle zone vicine. E
pregare qui con e in mezzo alla nostra gente è un modo per trasmettere fiducia e speranza.
Soffriamo molto la mancanza di una chiesa perché ci impedisce di radunarci tutti insieme. La dislocazione delle casette (Sae) rende difficile anche il semplice ritrovarsi”.
Pregare e ascoltare. “In tanti vengono qui nel nostro monastero-container per parlare e sfogarsi” racconta madre Corona. Lo sfogo principale?
“Vedere una ricostruzione veloce, giusta, sostenibile e trasparente. La burocrazia soffoca e blocca ogni ri-partenza – ammette la religiosa -. C’è un sistema che andrebbe cambiato alla base. Ci stiamo rendendo conto di tanti sperperi.
Mi riferisco per esempio alla messa in sicurezza di strutture che, al momento della ricostruzione, dovranno comunque essere demolite. Mi chiedo perché non farlo subito. Tanta gente potrebbe tornare nella propria casa con pochi soldi”.
“L’impressione è che si vada avanti senza prospettive”.
La direzione presa dalla comunità monastica è invece chiara: “essere comunità. La prospettiva è: essere uniti, comprendersi e interessarsi gli uni degli altri. Solo così si ricrea un clima di forza morale e spirituale necessario per ricostruire e andare verso il futuro”.