Rimpatri forzati
Israele intende espellere dal Paese madri filippine e i rispettivi bambini. La prassi prevede infatti che venga loro ritirato il visto in seguito alla gravidanza, se decidono di tenere il bambino con loro in Israele. Per Padre Rafic Nahra, vicario patriarcale per la pastorale dei migranti e dei richiedenti asilo, quella imposta alle donne è “una scelta molto crudele tra continuare il proprio impiego e la realizzazione del proprio diritto alla maternità. Questa di Israele è una scelta politica tesa a creare uno Stato ebraico” come prevede la legge fondamentale ‘Israele Stato-nazione del popolo ebraico’”
“Non sradicate questi bambini e le loro madri. Non appartengono a famiglie ricche. Tornare nel loro paese di origine vorrebbe dire ripiombare nella povertà e nell’indigenza, condizioni che le avevano costrette a emigrare. In tanti altri Paesi del mondo una persona che lavora con competenza e bravura per un lungo tempo può chiedere il diritto di residenza. In Israele non possono restare perché non sono ebrei”.
Padre Rafic Nahra, Vicario patriarcale per la pastorale dei migranti e dei richiedenti asilo in Israele, interviene così nella vicenda dell’espulsione delle madri filippine e dei rispettivi bambini messa in atto dalle autorità israeliane nel più ampio piano di rimpatri forzati di lavoratori stranieri e migranti con visto di lavoro scaduto. Le stime parlano di circa 30mila badanti filippine, su un totale di 60mila donne straniere provenienti da Asia e Europa dell’Est. Ma quelle a rischio espulsione, con i figli, sarebbero poche decine.
Il vicario del patriarcato latino di Gerusalemme ribadisce al Sir posizioni già espresse e sottoscritte, agli inizi del mese, dai Capi della Chiesa Cattolica in Israele che in una nota hanno espresso “preoccupazione” per la scelta delle “autorità competenti in materia di immigrazione di espellere dal Paese madri filippine e i rispettivi bambini. Benché – si legge nel testo – si tratti di lavoratori stranieri che hanno perduto il proprio status e il permesso di soggiorno in Israele, non si può ignorare la condizione particolare in cui versano tanto loro quanto i loro figli nati nel Paese”. Spiega padre Nahra: “sono in larghissima parte donne alle quali non è permesso avere bambini durante la loro permanenza per motivi di lavoro in Israele. Secondo la legge, infatti, una lavoratrice migrante straniera che resta incinta deve spedire il figlio nel Paese di provenienza una volta nato. Questa è la condizione per ottenere il rinnovo del visto.
Si tratta di una scelta molto crudele tra continuare il proprio impiego e la realizzazione del proprio diritto alla maternità”.
“Non ha senso espellere queste persone per farne venire delle altre” incalza il sacerdote che ricorda come si stia parlando di “donne per la maggior parte impiegata nell’assistenza ad anziani, a malati, in lavori domestici e pulizie, con orari di lavoro lunghi e faticosi. I loro figli, nati qui, frequentano scuole israeliane e parlano l’ebraico come lingua madre. Sono lavoratrici serie, i loro figli sono integrati, amano Israele”.
“Non sono un pericolo per la sicurezza di Israele”.
Non lo sono anche per i numeri, aggiunge padre Nahra, “molto circoscritti. Siamo nell’ordine di poche centinaia di persone, tra madri e bambini, questi ultimi nati e cresciuti qui, e che non avrebbero nemmeno i requisiti per ottenere la cittadinanza nel proprio Paese di origine. Non sarebbe più semplice tenerli tutti qui? Nel 2006 e nel 2010, Israele ha concesso la residenza permanente a diverse centinaia di bambini. Potrebbe farlo anche adesso”. La speranza che accada, tuttavia, è poca perché, denuncia il vicario patriarcale, “questa di Israele
è una scelta politica tesa a creare uno Stato ebraico
come prevede la legge fondamentale ‘Israele Stato-nazione del popolo ebraico’ approvata lo scorso anno, a luglio, dalla Knesset e strettamente legata all’identità ebraica del paese”. Un modo, dunque, per diminuire la popolazione non ebraica presente in Israele, come messo in evidenza anche da altri leader religiosi locali. Intanto sono cominciate le prime espulsioni: la prima è del 29 luglio corso e ha riguardato una donna filippina, con il figlio di 11 mesi, cui è seguito il rimpatrio forzato di una sua connazionale e dei suoi due figli. Quest’ultima aveva fatto inutilmente ricorso ai giudici.