Politica
Il primo ministro britannico forza la mano e chiude la Camera dei Comuni per bloccare ogni azione parlamentare volta a evitare il “no deal”. Johnson chiama in causa la Regina. Le opposizioni gridano al “golpe costituzionale”. L’arcivescovo anglicano Welby annuncia la partecipazione a un’assemblea di cittadini sul Brexit. L’Unione europea, con i suoi Stati membri, osserva con preoccupazione gli eventi di Londra, ma ormai il legame tra i 27 e l’isola è compromesso
Ancora non si è compiuto il Brexit; e chissà per quanto tempo ancora questa storia infinita dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea si trascinerà, benché il termine ultimo e definitivo sia stato fissato per il 31 ottobre. Potrebbe anche non avvenire. Tutto è possibile.
È di oggi la notizia che il governo, guidato da Boris Johnson, ritiene necessario sospendere i lavori del Parlamento dalla seconda settimana di settembre al 14 ottobre (giorno del discorso della Regina), per “approntare una nuova legislazione” sul recesso dall’Ue, sostiene lo stesso premier.
L’opposizione denuncia un bavaglio per zittire i rappresentanti del popolo. Il leader dei laburisti, Jeremy Corbyn, parla di “golpe costituzionale”. L’autorevole speaker della Camera dei Comuni, John Bercow, rincara la dose: “Questo è un oltraggio alla Costituzione”.Pur su un altro piano, interviene l’arcivescovo anglicano Justin Welby, capo della Chiesa d’Inghilterra, cui è stato chiesto di presiedere un’assemblea di cittadini sul Brexit, dicendosi disponibile.
Un ulteriore segnale viene dai mercati: la sterlina crolla, gli investitori, la City e il mondo produttivo d’oltre Manica esprimono sconcerto.
Di fatto Johnson intende evitare ogni iniziativa parlamentare, di una inedita e possibile maggioranza, volta a evitare il “no deal”, il recesso dall’Ue senza accordo. La richiesta di sospensione del Parlamento è rivolta dal governo alla Regina, la quale, in quanto Capo dello Stato britannico che “regna senza governare”, quasi certamente darà seguito a tale inusuale pretesa.
Si possono quindi avanzare – pur in questa situazione di incertezza – diverse osservazioni circail significato del Brexit per lo sviluppo futuro dell’Unione europea e gli sforzi politici britannici messi in campo, indipendentemente dalle turbolenze giuridiche e sociali e dalle conseguenze economiche che ne deriveranno.
È certo del resto che, a differenza del Regno Unito, nell’Ue non ci saranno turbolenze politiche a motivo del Brexit. Al contrario: nell’Unione c’è da aspettarsi che, nelle relazioni tra gli Stati membri e nel funzionamento della Comunità e delle sue istituzioni, ritorni un po’ di tranquillità, dal momento che si potrà tornare ad occuparsi delle questioni essenziali della politica europea.
Rimarchevole è l’unità con cui gli Stati membri hanno accompagnato tutte le fasi del processo negoziale sulle condizioni del ritiro della Gran Bretagna e il conseguente confronto nell’opinione pubblica, nel governo e nel parlamento britannici. A tutti i tentativi della diplomazia britannica e di alcuni media di portare gli Stati membri allo scontro tra loro, essi hanno risposto con stoica calma e responsabilità.
La competenza e l’obiettività del capo negoziatore dell’Unione, Michel Barnier, hanno certamente avuto grande parte in questo. Il governo britannico non ha avuto sul campo una personalità del medesimo calibro.
Nel Regno Unito cresce intanto l’opposizione a un Brexit senza accordo con l’Ue, linea che sembra invece voler intraprendere il primo ministro Boris Johnson. In ogni caso, per il Regno Unito le conseguenze saranno pesanti. Non solo in termini materiali. Il processo, iniziato con l’infelice referendum del 23 giugno 2016, ha fatto tremare la stabilità democratica e scosso il sistema politico inglese che da secoli funzionava in modo esemplare.
Interpretare questo disastro come prezzo dell’irresponsabile leggerezza con cui i promotori si sono tuffati nell’avventura del Brexit per interessi politici di partito non è – oggi più che mai – fuori luogo.