Sentenza Consulta
Una pronuncia pericolosa, ma i casi potrebbero essere limitati se i comitati etici saranno messi in grado di esercitare il compito di riflessione e valutazione loro affidato dai giudici. Ne è convinto il direttore dell’Istituto di bioetica dell’Università cattolica, secondo il quale “in molte situazioni la richiesta del paziente di non proseguire più i trattamenti si può configurare come eticamente giustificabile se riferita a trattamenti sproporzionati e che causano ulteriore sofferenza”.
“Una sentenza molto pericolosa, che però potrebbe essere gestita se strumenti come la valutazione etica funzionassero consentendo così di limitare e ridurre a poche situazioni i casi, mentre in tutti gli altri si potrebbe contare sulla sensibilità dei medici e sul riconoscimento da parte loro di trovarsi davanti a eventuali situazioni di accanimento. Perché
occorre distinguere con chiarezza tra la doverosa sospensione di un accanimento e il procurare direttamente la morte aiutando l’esecuzione del suicidio”.
Questo, in estrema sintesi, il giudizio di Antonio G. Spagnolo, direttore dell’Istituto di bioetica e medical humanities della Facoltà di medicina e chirurgia dell’Università cattolica, al quale, in attesa di leggere il dispositivo della pronuncia della Corte costituzionale in materia di punibilità dell’aiuto al suicidio, abbiamo chiesto un commento sui contenuti del comunicato diffuso l’altro ieri dalla Consulta.
Pur mantenendo un parere negativo sulla pronuncia, l’esperto ne ravvisa due elementi positivi. Il primo, ci spiega, consiste nell’avere subordinato la non punibilità, oltre che al rispetto delle modalità previste dalla legge 219/2017 sul consenso informato e sulle cure palliative, alla “verifica delle condizioni richieste e delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del Ssn, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente”. Questa, sottolinea,
“è la prima volta che nella questione di fine vita vista dalla prospettiva della legge compare il ruolo del comitato etico,
del quale avevamo criticato la mancanza nella suddetta legge che prevedeva in caso di conflitto medico–paziente il ricorso al giudice”.
Secondo Spagnolo, “già nella legge 219/2017 vi erano elementi che avrebbero potuto affrontare la questione del fine vita senza bisogno di una sentenza; una norma che, interpretata in un certo modo, poteva dare una risposta alla questione sottoposta alla Consulta con la sola modifica dell’art. 580 del Codice penale, ossia sanzionando in modo differenziato l’istigazione e l’aiuto al suicidio”. Tuttavia, prosegue, “qui c’è il riferimento almeno ad una riflessione, ossia che la valutazione delle condizioni richieste sia affidata al comitato etico territorialmente competente. Questo apre certamente la questione di come debba essere costituito questo comitato; se sia lo stesso che si occupa di sperimentazione di farmaci o uno specifico per la pratica clinica e i casi complessi; oltre a quella del progressivo smantellamento dei suddetti comitati – da 270 su tutto il territorio agli attuali 90 che diventeranno 40 non appena saranno pronti i decreti attuativi della legge Lorenzin del 2018. Una riduzione che comporta il rischio che, senza un loro ripristino, la valutazione affidata dalla Corte rimanga sulla carta”.
Eppure, prosegue Spagnolo, “il comitato etico sarebbe una risposta ottimale a fronte di una valutazione che non può essere solo di carattere giuridico su quale volontà prevalga, ma deve essere fondata su un dialogo, uno scambio di informazioni, un sevizio di consulenza”. Anche perché, in molte situazioni, la richiesta del paziente di non proseguire più i trattamenti si può configurare come eticamente giustificabile se riferita a trattamenti sproporzionati e che causano ulteriore sofferenza.
Sproporzione, futilità e gravosità configurano infatti una situazione di accanimento terapeutico nella quale il medico dovrebbe egli stesso pensare di desistere dai trattamenti.
L’altro elemento positivo ravvisato nella sentenza è “che le modalità di esecuzione vengano affidate ad una struttura pubblica del Ssn. Questo sembra poter dire che non sarà sempre necessaria una sorta di obiezione di coscienza perché
è difficile che si possa richiedere ad una struttura non pubblica di dare attuazione a qualcosa che essa ritiene di non dover fare”.
Ma poiché medici obiettori lavorano anche in strutture pubbliche, “occorre leggere che cosa dice effettivamente la sentenza e come verrà tradotta nella legge, ma è ovvio che nella norma non si potrà non prevedere l’obiezione di coscienza che – come ricorda il Papa – non è un mettersi in cattedra né abbandonare il paziente, ma continuare ad accompagnarlo pur prendendo le distanze da richieste che non si possono condividere”.