Politica
La conferenza dei capigruppo della Camera ha messo in calendario per il 7 ottobre il quarto e definitivo passaggio della legge di revisione costituzionale che taglia 230 deputati e 115 senatori. L’esito del voto è scontato e a questo punto tutte le riserve che sono state espresse sul contenuto e soprattutto sul senso politico di questa riforma restano a futura memoria
Si comincia con la riduzione del numero dei parlamentari: la conferenza dei capigruppo della Camera ha messo in calendario per il 7 ottobre il quarto e definitivo passaggio della legge di revisione costituzionale che taglia 230 deputati e 115 senatori. L’esito del voto è scontato e a questo punto tutte le riserve che sono state espresse sul contenuto e soprattutto sul senso politico di questa riforma restano a futura memoria. Ma poi che cosa accadrà? Innanzitutto occorrerà attendere tre mesi durante i quali diversi soggetti (un quinto dei membri di uno dei rami del Parlamento o cinque consigli regionali oppure ancora 500 mila elettori) potranno chiedere di sottoporre il testo approvato a un referendum, il cosiddetto “referendum confermativo”. Dopo di che, se la consultazione popolare non sarà richiesta, la legge di revisione costituzionale entrerà in vigore; altrimenti scatterà la procedura referendaria e se ne riparlerà in primavera. Appare del tutto improbabile, tuttavia, che qualcuno si metta di traverso al cammino di una riforma che tocca il cuore della propaganda “anti casta” e quindi nel dibattito tra i partiti la riduzione del numero dei parlamentari è ormai un dato acquisito e si ragiona sulle sue ripercussioni politico-istituzionali.
“Questa riforma – ha detto il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, nel suo discorso programmatico alle Camere – dovrà essere affiancata da un percorso volto a incrementare le garanzie costituzionali e di rappresentanza democratica, anche favorendo l’accesso alle formazioni minori e assicurando il pluralismo politico e territoriale. In particolare, occorrerà avviare un percorso di riforma quanto più possibile condiviso del sistema elettorale; contestualmente è nostro obiettivo procedere a una riforma dei requisiti di elettorato attivo e passivo, nonché avviare una revisione costituzionale per assicurare maggiore equilibrio al sistema e far riavvicinare i cittadini alle istituzioni”.
Di questi interventi di riequilibrio del sistema – quando si tocca la Costituzione bisogna sempre tener conto dell’insieme dell’ordinamento – quello su cui si è subito concentrata l’attenzione delle forze politiche è l’adeguamento della legge elettorale.
L’effetto collaterale di una così cospicua riduzione del numero dei parlamentari, infatti, è una compressione del pluralismo della rappresentanza, a cui si aggiunge una modifica rilevante del rapporto tra eletti ed elettori e tra eletti e territori. Con molti meno seggi da assegnare, il numero di cittadini per ogni parlamentare si moltiplica e allo stesso tempo, soprattutto al Senato e nelle regioni più piccole, è come se di fatto si introducesse una soglia di sbarramento elettorale molto elevata (fino al 20% secondo alcune stime), tagliando fuori anche forze significative. Una legge elettorale di impianto proporzionale, che fotografa i consensi di ciascun partito e li traduce in seggi, potrebbe ovviare almeno in parte a questi rischi.
Accanto a questa oggettiva motivazione istituzionale ce n’è un’altra tutta politica. Le forze della coalizione di governo hanno interesse ad adottare un sistema elettorale che non consenta in futuro al leader della Lega, Matteo Salvini, di ottenere la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento pur restando lontano dalla maggioranza assoluta dei voti. Di qui il recupero della logica di fondo del sistema proporzionale (su cui però ci sono molti distinguo soprattutto nel Pd) che renderebbe estremamente problematico l’en plein della Lega. D’altro canto anche Salvini ha interesse a modificare l’attuale legge elettorale, che è prevalentemente proporzionale ma con una decisiva quota di maggioritario, e il suo obiettivo è esattamente l’opposto di quello della coalizione di governo. Il leader leghista si è già mosso da tempo, promuovendo un referendum abrogativo per abolire del tutto la quota (i cinque ottavi) di deputati e senatori eletti con la proporzionale secondo il sistema in vigore. Rimarrebbero soltanto i collegi uninominali “all’inglese”: chi prende anche un solo voto in più degli altri conquista il seggio. La Costituzione prevede che il referendum abrogativo possa essere chiesto da 500mila elettori o da almeno cinque consigli regionali e Salvini ha scelto questa seconda strada soprattutto per motivi di tempo. Il deposito in Cassazione del quesito referendario entro il 30 settembre consente che si vada alle urne nella primavera dell’anno successivo e la Lega ha mobilitato i consigli regionali in cui è in maggioranza con FdI e Forza Italia perché deliberassero a supporto dell’iniziativa. Lo hanno fatto Lombardia, Veneto, Piemonte, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Sardegna, Abruzzo e Basilicata.
Per arrivare alla consultazione popolare è però necessario che il quesito referendario, estremamente lungo e complesso perché ricavato abrogando decine di commi o frammenti di commi da quattro diverse leggi, venga giudicato ammissibile dalla Corte costituzionale.
Più di un giurista ha avanzato dubbi in proposito alla luce dei criteri adottati dalla Consulta nelle precedenti decisioni, in particolare il principio secondo cui il sistema di voto che risulta dall’eventuale abrogazione deve essere immediatamente applicabile perché non si può lasciare il Parlamento senza una legge per l’elezione dei suoi membri. E in questo caso il problema si anniderebbe nella necessità di ridisegnare comunque i collegi elettorali. Saranno i giudici costituzionali a dire l’ultima parola.