Preghiera dei vescovi
Oggi la Conferenza episcopale colombiana e il nunzio apostolico in Colombia, mons. Luis Mariano Montemayor, hanno allargato a tutto il Paese l’invito a una preghiera di tre minuti per la pace e la vita, inizialmente lanciato dall’arcivescovo di Popayán, mons, Luis José Rueda Aparicio, in seguito ai due massacri che la scorsa settimana hanno insanguinato il nord del dipartimento sudoccidentale del Cauca
Tre minuti per tenere viva la preghiera e la speranza, e non sentirsi “soli contro tutti”. Oggi a mezzogiorno (ora locale) la Conferenza episcopale colombiana e il nunzio apostolico in Colombia, mons. Luis Mariano Montemayor, hanno allargato a tutto il Paese l’invito a una preghiera per la pace e la vita, inizialmente lanciato dall’arcivescovo di Popayán, mons, Luis José Rueda Aparicio, in seguito ai due massacri che la scorsa settimana hanno insanguinato il nord del dipartimento sudoccidentale del Cauca.
Il primo è accaduto a Huasanó, nel municipio di Toribío, dove sono state uccise cinque persone, tra cui la governatrice indigena dei Nasa Cristina Bautista. Il secondo nel comune di Corinto, non molto lontano: in questo caso i morti sono stati quattro. E nella giornata di ieri c’è stato un altro attentato mortale a Toribío (la vittima si chiamava Jesus Mestizo), mentre un’altra guardia indigena, Arbey Noscue, è scappata miracolosamente alla morte.
“Chiediamo al Signore con tutta la nostra devozione, convinti che ci ascolterà, che abbiano termine nel Cauca e in tutto il Paese la violenza, la morte, l’odio, la divisione o ogni tipo di violenza, e che il Signore ci conceda il dono della pace, la forza e il coraggio per costruirla”, afferma in un breve video il segretario generale della Conferenza episcopale colombiana, mons. Elkin Álvarez Botero, vescovo ausiliare di Medellín.
Un angolo di Colombia dove la guerra continua. Almeno per tre minuti, dunque, i riflettori si accendono su quest’angolo di Colombia, isolato e montagnoso, a circa 120 chilometri a nordest del capoluogo del dipartimento, Popayán, un centinaio di chilometri a sudest di Cali, alle pendici del grande Nevado del Huila, che si staglia a est. Già roccaforte delle Farc (non molto lontano da qui fu individuato e ucciso nel 2011 il penultimo capo supremo della guerriglia, Alfonso Cano) quest’angolo, forse più di ogni altro, rivela quanto sia impossibile, in Colombia, parlare di post-conflitto, a tre anni dalla firma degli accordi di pace con le Farc. “Io lo chiamo pseudo-accordo”, ci dice in lacrime Vilma Almendra, leader indigena del popolo Nasa, che da secoli abita quelle valli, amica di Cristina Bautista, la governatrice indigena uccisa la scorsa settimana.
Qui c’è la più grande concentrazione di uccisioni di leader sociali e indigeni di tutto il Paese: in totale, in Colombia, circa 600 negli ultimi 4 anni, 172 nel 1018, già 155 nel settembre di quest’anno.
Una strage silenziosa, rispetto alla quale il dipartimento del Cauca è stabilmente al primo posto. Il fatto che il presidente Duque abbia inviato nella zona duemila soldati dopo l’uccisione di Cristina Bautista non elimina una scomoda verità: da decenni qui lo Stato è assente, quando non addirittura complice, e gli indigeni Nasa, che hanno deciso di difendere le loro terre e di resistere alla violenza armata, sono soli contro tutti.
Che a uccidere la leader indigena sia stata, forse, la dissidenza Farc (proprio il “ritorno delle Farc” è il titolo che ha fatto effetto sui giornali), in fondo, è solo un dettaglio. “Ci sono stati anche massacri peggiori”, dice al Sir Manuel Rozental, medico che ha sposato Vilma e con lei la causa dei Nasa, attraverso l’associazione Pueblos en camino. “Qui ci sono tutti i gruppi armati possibili – aggiunge Vilma Almendra -. C’è la dissidenza Farc, ma anche i paramilitari, le altre guerriglie dell’Eln e dell’Epl, il Clan del Golfo e i messicani di Sinaloa. Noi difendiamo la nostra madre terra.
Ci assassinano perché difendiamo il territorio.
La nostra guardia indigena, l’unica che difende il territorio, non usa armi, al massimo dei bastoni”.
Sotto il fuoco incrociato dei gruppi armati e dei narcos. A mani nude, il popolo Nasa subisce gli assalti di alcuni dei maggiori gruppi criminali non solo della Colombia, ma dell’intero pianeta. “I mali di questa terra si chiamano narcotraffico, coltivazioni illecite, ma anche monocolture come quella della canna da zucchero – prosegue Rozental -. Purtroppo, a volte, anche indigeni si lasciano sedurre dalle offerte di queste persone, abbandonano le terre in cambio di pochi soldi, una moto, qualche arma. Così il nostro territorio, fertilissimo, si riempie di campi di canna da zucchero, che non servono alla nostra popolazione. O di coltivazioni illegali, come piante di coca o marujiana. La prima sfida è quella di recuperare la terra. Lo stesso governo colombiano stabilisce che ogni famiglia avrebbe bisogno di tre ettari per il proprio fabbisogno, qui la media è di un ettaro”.
Una denuncia confermata al Sir da Víctor Samuel Rojas, diacono permanente attivo nella Pastorale sociale dell’arcidiocesi: “Gli indigeni sono praticamente sotto il fuoco incrociato degli scontri tra bande armate che lottano per la supremazia – racconta -. Noi cerchiamo di rafforzare il protagonismo delle popolazioni locali, di indigeni e campesinos, le loro associazioni. Ma la situazione è grave. Abbiamo cercato di aprire varchi di dialogo, per garantire il rispetto a queste popolazioni, ma i primi a non tenere in conto gli accordi sono i governanti”.
Afferma, a questo proposito, Fredy Parra, presidente dell’associazione di campesinos Anuc di Santander de Quilichao:
“La situazione è grave, personalmente fatico a vedere vie d’uscita per alcune cause strutturali: il conflitto della terra, cui il Governo non ha dato soluzione; il narcotraffico e le coltivazioni illegali; l’attività estrattiva illegale. Sono fattori esterni molto forti e c’è carenza di politiche coerenti, tanto dello sviluppo della ruralità che nella lotta al narcotraffico.
Noi, come Anuc, cerchiamo un’armonizzazione territoriale tra le realtà delle comunità indigene, afro e della popolazione campesina in genere, l’unica a non avere alcun tipo di riconoscimento”.
La speranza seminata da padre Antonio. Eppure, proprio in una situazione così difficile, che sembra quasi senza via d’uscita, la speranza non muore. In gran parte è merito dei preti e dei missionari che sono passati per Toribío. Primo di tutti, padre Álvaro Ulque, il primo sacerdote indigeno della Colombia, ucciso nel 1984. A prendere il suo posto, come parroco di Toribío, fu il missionario Antonio Bonanomi, padre della Consolata, morto nel 2018, alla guida della comunità per 19 anni, dal 1988 al 2007. Con lui ha collaborato un altro padre della Consolata, Ezio Roattino, che vive ancora nel Cauca.
Manuel Rozental ancora si illumina quando sente parlare di padre Antonio: “Lo abbiamo nel cuore, ci ha donato l’educazione, ci ha insegnato la partecipazione comunitaria, a me ha salvato la vita!”. Conclude la moglie Vilma Almendra: “Ogni seme cresce nell’oscurità. La nostra speranza non viene meno e la nostra battaglia continua”.