L'accusa di genocidio
Il cardinale Charles Bo ha portato nella sala dei leader religiosi del mondo riuniti da Religions for Peace il dramma di questa popolazione e di un intero Paese chiamato a rispondere di genocidio e crimini contro l’umanità. “La mia impressione – spiega il cardinale – è che i media abbiano preso una posizione molto forte a loro favore, limitandosi purtroppo a raccontare solo un lato della storia”. E ricorda l’impegno della Chiesa locale che, insieme ai rappresentanti musulmani, buddisti e indù si batte perché il ritorno dei Rohingya sia “pianificato, dignitoso, volontario e sicuro”.
(da New York) “Il Myanmar è un paese ricchissimo di risorse naturali eppure è tra i più poveri del Sudest asiatico. La tragedia dei due milioni Rohingya lo ha portato al centro delle relazioni internazionali soprattutto dopo l’agosto del 2017 quando i militari, con un uso eccessivo di forza, hanno costretto ben 700mila membri di questa minoranza a rifugiarsi in Bangladesh e parecchie migliaia anche nella vicina India”. Il cardinale Charles Bo ha portato nella sala dei leader religiosi del mondo riuniti da Religions for Peace il dramma di questa popolazione e di un intero Paese chiamato a rispondere di genocidio e crimini contro l’umanità. Il cardinale copresidente del forum consultivo di Religions for peace, dallo scorso anno ha creato uno “spazio aperto” per tutti 100 rappresentanti di governo, militari, gruppi etnici, società civile e gruppi religiosi, al fine di costruire insieme un percorso comune di pace e di riconciliazione nazionale. Ad uno degli appuntamenti ha partecipato anche Aung San Suu Kyi, che davanti alla corte internazionale dell’Aja ha dovuto difendere il suo Paese dall’accusa di genocidio. La sua tenacia ha ottenuto che il Myanmar e il Bangladesh siglassero un accordo bilaterale sul ritorno degli sfollati e una serie di impegni con le agenzie Onu per i rifugiati e per lo sviluppo della popolazione. “Abbiamo ribadito il nostro sostegno di leaders religiosi affinché i rimpatriati ritornino nei luoghi di origine o in posti vicini e che al contempo possano avere accesso ai servizi di base, alla libertà di movimento e a condizioni di vita sostenibili”, continua il cardinale che insieme ai rappresentanti musulmani, buddisti e indù si batte perché il ritorno sia “pianificato, dignitoso, volontario e sicuro”.
Il Myanmar si è trovato davanti alla Corte dell’Aja per genocidio contro i Rohingya. Quale è la reale situazione interna del Paese?
Non possiamo negare la violenza nei confronti dell’etnia Rohingya ma i fatti avvenuti vanno esplorati in profondità. La mia impressione è che i media abbiano preso una posizione molto forte a loro favore, limitandosi purtroppo a raccontare solo un lato della storia. Non possiamo condannare l’intero popolo del Myanmar per un attacco che è stato soprattutto militare. Ci sono responsabilità gravi per le violenze, ci sono migliaia di innocenti senza casa e dispersi in altri stati, ma vorrei dire alla comunità internazionale di non punire l’intero Myanmar e imporre sanzioni che si rifletterebbero particolarmente sul popolo. Termini estremi come genocidio, pulizia etnica e sanzioni non aiuteranno il nostro cammino verso la pace e la democrazia.
Quale è il ruolo che la Chiesa sta svolgendo in un momento così delicato?
Le nostre iniziative di dialogo con musulmani e con i buddisti hanno ricevuto la stima e l’apprezzamento del governo, degli stessi militari e dalla società civile perché siamo considerati costruttori di ponti e operatori di riconciliazione.
Noi combattiamo contro tutti quei discorsi d’odio e di diffamazione che sono tra le cause della divisione nel Paese
e il governo ha molta fiducia nella chiesa cattolica e nel consiglio interreligioso creato attraverso Religions for Peace, uno strumento che può farci riguadagnare la pace. Vediamo il Myanmar frantumato in tanti gruppi: da un lato i Rohingya, dall’altro lato tanti altri gruppi etnici e tutti sono in lotta contro i militari che sono molto preoccupati di questa escalation di tensioni. La Chiesa, in questo momento svolge un ruolo guida nel processo di riconciliazione e godiamo della fiducia dei ministri del governo, delle varie etnie e degli altri responsabili religiosi
Aung San Suu Kyi da paladina dei diritti umani si è trasformata in voce silente e in portavoce del governo. Una trasformazione inspiegabile.
E’ importante che di fronte alla corte si ascolti anche la posizione del governo e non solamente le accuse di una parte. Aung San Suu Kyi non sta negando nulla, non sta negando l’eccesso di forza e a L’Aja ha voluto spiegare che ci sono persone coinvolte nelle violenze da ambo le parti. Lei non è andata lì solo per parlare a nome del governo, ma è lì a rappresentare il popolo del Myanmar e a dargli voce. Sta facendo proposte su cui chiede alla comunità internazionale di riflettere. E’ stata coraggiosa nell’accettare di fronteggiare le accuse e servono indagini più ampie.