I documenti
Tra i tanti misteri del massacro di monaci innocenti in Etiopia nel 1937, nelle carte dell’inchiesta italiana è conservato un appunto scritto in amarico, in cui si sintetizzano quattro episodi storici nei quali i monaci vengono puniti severamente dai re d’Etiopia per la loro malvagità. Quattro episodi storici, sintetizzati e trascritti a mano, in amarico, su un foglietto fatto arrivare alle autorità italiane per screditare i religiosi di Debre Libanos e poterli uccidere impunemente.
Il 27 maggio del 1937, il viceré di Etiopia, Rodolfo Graziani, telegrafa al ministro dell’Africa italiana, Alessandro Lessona per informarlo della sua decisione di aver fatto fucilare anche 129 diaconi del monastero di Debre Libanos, complici anch’essi – scrive – nell’attentato compiuto ai suoi danni, il 19 febbraio dello stesso anno. La loro uccisione è l’ultimo atto della vendetta contro i religiosi del convento, ritenuti l’anima della rivolta e le menti dell’atto terroristico. Il 21 maggio, erano stati passati per le armi – secondo i documenti italiani – 320 monaci. Complessivamente, dunque, furono uccise 449 persone senza nessun processo che ne attestasse la colpevolezza (altri 3 monaci verranno eliminati in carcere ad Addis Abeba) come ritorsione per l’attentato di febbraio, nel quale due giovani eritrei, Abraham Debotch e Mogus Asghedom, scagliarono alcune bombe – forse otto, modello Breda – contro Graziani. Le esplosioni fecero sette vittime. Il viceré venne colpito da numerose schegge e trasportato in ospedale gravemente ferito. Se la caverà. Con l’ossessione di vendicarsi. Secondo Graziani, i colpevoli si annidavano nel monastero di Debre Libanos. Per questo, al termine di un’indagine frettolosa e carica di pregiudizi, darà l’ordine di massacrare i monaci. Una vera e propria mattanza. Secondo alcuni storici contemporanei, infatti, le vittime sono molte di più di quelle conteggiate nei documenti ufficiali: oltre duemila, tra religiosi e pellegrini. Quel telegramma che Graziani invia a Lessona il 27 maggio rivela le motivazioni profonde di quella strage. Nella parte finale, Graziani scrive: “In tal modo del convento di Debra Libanos (da secoli covo di assassini sotto forma di monaci et che già altra volta durante regno del Negus subì stessa sorte per identici delitti) non rimane più traccia”. In queste righe, traspare evidente l’ossessione di Graziani per Debre Libanos, definito “covo di assassini sotto forma di monaci” e non da ora ma “da secoli”, tanto che, nel passato “subì stessa sorte per identici delitti”.
Non è un passaggio casuale. Graziani, infatti, non solo aveva ordinato un’indagine che doveva dimostrare la colpevolezza dei monaci ma aveva cercato anche di accreditare l’idea che Debre Libanos fosse sempre stato un ricettacolo di malfattori. Il viceré poteva disporre, infatti, di una sorta di minuscolo archivio storico sulle malefatte dei religiosi del convento. Tra le carte dell’inchiesta italiana, è conservato un appunto scritto in amarico, in cui si sintetizzano quattro episodi storici nei quali i monaci vengono puniti severamente dai re d’Etiopia per la loro malvagità. Questo il testo inedito, pubblicato grazie alla traduzione di Sofonias Kassahun Workie – presidente della comunità etiopica di Roma – e alla consulenza di Alberto Elli – autore di una monumentale “Storia della Chiesa Ortodossa Tawāhedo d’Etiopia” (Edizioni Terra Santa, 2017).
Letteralmente suona così: “1) Ai tempi del re Amde Tsion, il capo dei monaci della Chiesa di Debre Libanos, Filippos, vista la loro mancanza di rispetto nei confronti del re nel deliberare la loro opinione (avevano parlato in modo aspro e con toni non accettabili per un sovrano), dopo averli portati nel centro della corte, davanti a tutti, ha punito Anorios e tutti gli altri monaci del monastero 2) Al tempo di Atse Seifu, a causa del digiuno, per il mancato rispetto rivolto alla sua eccellenza, li ha fatti decapitare davanti a lui 3) Nell’era del comandante Davide, cantando il motto ‘La religione giusta è quella del re, la religione giusta è quella del padre’ un umile servitore chiamato, Giawi, con l’ordine del comando, ha sgozzato tutti. 4) Al tempo di Atse Neble Dingle, un monaco trovato con un vestito di una donna è stato ucciso, per i delitti che ha commesso”.
Quattro episodi che dimostrano la malvagità dei monaci e la conseguente necessità di annientarli.
Il primo avvenimento si riferisce (con qualche aporia) alla violenta contrapposizione tra il negus Amda Seyon (1314-1344) e i monaci dei due grandi monasteri di Debre Hayq e di Debre Asbo (dal 1455, sarà chiamato Debre Libanos), al termine della quale l’abate di Debre Libanos, abba Filippos, e il suo discepolo, abba Anorewos di Warab, furono esiliati.
Il secondo episodio avvenne durante il regno di Sayfa Arad (1344-1371), che – osteggiato dal mondo monastico, in particolare sul problema del digiuno natalizio – si vendicò con la persecuzione dei religiosi.
Il terzo potrebbe riguardare il regno del negus Dawit II (1382-1411), la cui presa del potere mediante un colpo di Stato a spese del fratello gli era valsa l’ostilità del clero, in particolare dei monaci di Debre Asbo, guidati dall’abate Tewodros.
L’ultimo episodio è del tempo del negus Lebna (nel documento: Neble) Dengel (1508-1540). Una leggenda narra che il condottiero dell’esercito musulmano Gragn “il mancino” – responsabile di distruzioni e morte nel regno etiopico – odiasse particolarmente i cristiani perché voleva vendicare la morte del padre, un monaco di Debre Libanos, ucciso dai suoi confratelli, in quanto trovato a indossare un berretto rosso da donna.
Quattro episodi storici, sintetizzati e trascritti a mano, in amarico, su un foglietto fatto arrivare alle autorità italiane. L’appunto non è né intestato né firmato. Difficile dire chi lo abbia scritto. Sicuramente qualcuno che conosceva bene la storia etiopica, odiava i monaci e collaborava con gli italiani.
Ma è, invece, chiaro lo scopo dell’appunto: mettere in cattiva luce Debre Libanos.
Dopo l’attentato di febbraio, le accuse contro i monaci vengono costruite su due livelli: attraverso un’indagine viziata e preconcetta e con una ricostruzione storica altrettanto inquinata dal pregiudizio. Una doppia inchiesta per dimostrane la pericolosità. E la necessità di annientarli. Come, effettivamente, fu fatto.
Un massacro inutile e ingiusto. Con il quale l’Italia non ha mai fatto i conti. Né chiesto scusa.
Nel maggio del 2017, l’allora ministro della difesa, Roberta Pinotti, annunciò l’istituzione di una commissione storica su quei tragici fatti. Commissione che, però, non vide mai la luce. Ora, è il momento di tornare ad affrontare la questione.