ANNIVERSARI

Il Papa che fermò Attila

Cinquant’anni fa l’enciclica di Giovanni XXIII su Leone Magno

Il 10 novembre è la ricorrenza liturgica di san Leone Magno. Quest’anno sono 1550 anni dalla morte di questo pontefice e 50 anni dall’enciclica Aeterna Dei Sapientia, scritta da papa Giovanni XXIII nel 1961 appunto per celebrare il 15° centenario della morte del suo predecessore, la cui figura emerge nella storia del papato, soprattutto dei primi secoli, tanto che fu chiamato Magno, "il Grande".
"L’eterna sapienza di Dio… sembra avere impresso con singolare splendore la sua immagine nello spirito di san Leone I": così le parole iniziali dell’Aeterna Dei Sapientia, che papa Giovanni firma l’11 novembre del 1961, quando mancano undici mesi esatti all’apertura del Concilio Vaticano II ed è in piena attività la complessa macchina preparatoria del grande avvenimento "nel quale i vescovi, stretti intorno al romano pontefice e con lui in intima comunione, daranno al mondo intero un più splendido spettacolo dell’unità cattolica". In tale imminenza, prosegue il Papa, "è quanto mai istruttivo e confortante richiamare allo spirito, anche se rapidamente, l’alta idea che san Leone ha avuto dell’unità della Chiesa".
La sesta enciclica giovannea ripercorre in brevi tratti la vita, l’opera, i meriti di san Leone, romano di adozione, toscano di nascita, eletto Papa quando ancora era diacono e lontano da Roma (inviato pontificio in Gallia), ma già conosciuto come insigne teologo e fine diplomatico. Un pontificato lungo il suo, dal 29 settembre del 440 al 10 novembre del 461. Ventuno anni durante i quali Leone I si prodigò con energia per combattere le eresie e fronteggiare i barbari; per affermare il primato della Sede di Roma; per consolidare l’autorità e il prestigio del Romano Pontefice in quanto successore di Pietro e vicario di Cristo e, dunque, centro dell’unità visibile della Chiesa cattolica. Egli stesso impersonò la figura ideale del vescovo di Roma, attribuendo i frutti del suo universale ministero ai meriti di Pietro – di cui, ribadiva, "faccio le veci per divino mandato" –, più che ai propri.
Papa Giovanni ricorda il "gesto di intrepido coraggio" del suo predecessore, quando "inerme, rivestito solo della maestà di sommo sacerdote", affrontò nel 452 il feroce Attila, re degli Unni, sulle sponde del Mincio e lo persuase a ritirarsi oltre il Danubio. "Un gesto nobilissimo", osserva Roncalli, "quanto mai degno della missione pacificatrice del pontificato romano, ma in realtà non rappresenta che un episodio di una vita spesa tutta intera per il bene religioso e sociale non soltanto di Roma e dell’Italia, ma della Chiesa universale".
Il nome di san Leone è legato soprattutto al Concilio di Calcedonia del 451 nel corso del quale, condannata l’eresia di Eutiche (che sosteneva l’unica natura, quella divina, in Gesù Cristo, escludendo quella umana), "trionfarono con eguale splendore la vera fede nelle due nature del Verbo incarnato e il primato di magistero del romano pontefice".
Basta dare uno sguardo all’intensa attività di pastore e di scrittore svolta da san Leone per trarne la convinzione che egli fu l’assertore e il difensore dell’unità della Chiesa sia nel campo dottrinale sia in quello disciplinare. Oltre che per le sue doti di pastore, scrive papa Giovanni nell’Aeterna Dei Sapientia, san Leone è celebrato nei secoli quale dottore della Chiesa: una fama affidata alle numerose omelie e lettere dalle quali emergono sapienza e dottrina, insieme al suo stile "semplice e grave, elevato e persuasivo".
È ancora una volta un appello all’unità, al ritorno dei fratelli separati, "eco di quello lanciato più volte da papa Leone", che Giovanni XXIII rivolge nella parte conclusiva dell’enciclica, là dove – con un velo di percepibile amarezza – non può fare a meno di osservare: "Il XV centenario della morte di san Leone Magno trova la Chiesa cattolica in dolorose condizioni simili in parte a quelle che essa conobbe nel secolo V. Quanti travagli, infatti, in questi tempi affliggono la Chiesa e si ripercuotono nel nostro animo paterno…".
Ma papa Giovanni non perde la speranza. Il suo pensiero, il suo cuore, sono rivolti all’imminenza del Concilio. "Nella fiducia", scrive, "che l’imponente adunanza… non solo rafforzerà i vincoli di unità nella fede, nel culto e nel magistero, che sono prerogativa della vera Chiesa, ma attirerà altresì lo sguardo di innumerevoli credenti in Cristo e li inviterà a raccogliersi attorno al ‘gran Pastore del gregge’, che ne ha affidato la custodia a Pietro e ai suoi successori".