Venti anni fa fu ucciso
Sulle tracce dei ragazzi di don Peppe. A colloquio con Luigi Belluomo, 47 anni, dirigente d’azienda, che lo ha conosciuto quando aveva solo otto anni: “Io ero un lupetto e lui un seminarista che faceva volontariato con noi”. E ancora: “Ricordo il giorno della sua morte. Ho lanciato lo zaino per terra e ho gridato…”. Poi “è nata una forza di riscatto per le nostre terre e il nostro popolo”
Venti anni fa, il 19 marzo 1994, veniva ucciso don Peppe Diana, mentre si accingeva a celebrare la messa nella parrocchia di San Nicola, alle 7.30, a Casal di Principe. Stamattina il vescovo di Aversa, monsignor Angelo Spinillo, alla stessa ora e in quella parrocchia, ha presieduto la messa che don Peppe non poté celebrare. Oggi è previsto un raduno nazionale di scuole, associazioni e cittadini che sfileranno lungo le strade di Casal di Principe, mentre domenica scorsa 6mila scout da tutta la Campania e dal basso Lazio si sono riversati nella città per ricordare don Diana. “Sono importanti questi momenti per far capire ai più giovani, che ancora non erano nati quando don Peppe è stato ucciso dalla camorra, che ci può essere un’alternativa valida alla mentalità mafiosa”, dice al Sir Luigi Belluomo, 47 anni, dirigente d’azienda, che ha conosciuto don Diana quando aveva otto anni. “Io ero un lupetto e don Peppe un seminarista che faceva volontariato con noi scout. Poi l’ho incontrato di nuovo come capo reparto degli scout, dopo che don Diana era diventato sacerdote ed era rientrato in diocesi, dopo aver studiato dai gesuiti. Aveva ripreso, infatti, l’esperienza con gli scout”, ricorda Belluomo.
Che ricordo ha di don Peppe?
“Don Peppe non aveva molti anni più di me, ma abbastanza per essere un esempio di vita. Ricordo che quando io ero piccolo mi colpiva perché era esuberante, gioioso e sapeva trattare con i bambini; quando l’ho rivisto da capo reparto, ero impressionato dalla sua capacità di trasmettere i valori in modo semplice e diretto con il suo esempio e il suo modo di fare, mostrando la fermezza di chi ha convinzioni certe e le porta avanti nella vita. Aveva il coraggio di affrontare tutte le situazioni, senza mai nascondersi. Quando, come scout, uscivamo nei boschi, ci sentivamo sicuri al suo fianco, protetti. E, poi, era sempre accogliente verso il prossimo, offriva aiuto agli immigrati, s’impegnava per un risveglio delle coscienze alla legalità”.
Voi che eravate vicini a don Diana avevate capito la portata del famoso documento “Per amore del mio popolo”?
“Quel documento è stato la causa della sua morte, perché ha rappresentato una presa di posizione chiara e forte della Chiesa contro la malavita. È stato come il chicco di grano seminato nel terreno che poi ha dato frutto, facendo crescere nelle anime la voglia di cambiamento. Ricordo ancora il giorno della sua morte. Quando sono tornato dal lavoro, mi è stato detto quello che era successo; ho lanciato lo zaino per terra e ho gridato: ‘Lo sapevo che prima o poi si faceva uccidere’. Perché tutto quello che faceva era in controtendenza, contro un modo di pensare malavitoso molto diffuso. La camorra offriva a troppi quello che lo Stato non era capace di dare. Per questo, lo scossone che ha dato il sacerdote alle coscienze è stato grande, ma non credo che don Peppe avesse paura di una reazione, non me l’ha mai detto. Questo, però, non esclude che possa aver avuto paura e non averlo manifestato”.
Qual è l’eredità di don Peppe?
“Dalla sua morte è nata una forza di riscatto per le nostre terre e il nostro popolo. C’è stato un avvicinamento di tutti quelli che avevano avuto contatti con don Peppe: noi scout, i foulard bianchi, le associazioni che si occupano di immigrati, la comunità parrocchiale. Insieme abbiamo iniziato a impegnarci per scrivere un futuro diverso per tutti noi. Il dolore per l’uccisione di don Diana ha fatto venir fuori la parte sana della società, che, fino ad allora, aveva avuto paura di mostrarsi e di alzare la voce contro il potere criminale. Oggi è importante la memoria di don Peppe per far sì che le nuove generazioni non siano ammaliate dalle sirene dei soldi facili e del potere, che la criminalità organizzata offre. Il suo esempio può far comprendere ai ragazzi che è bene rigettare la mentalità mafiosa, che purtroppo continua a persistere, e costruire insieme un mondo migliore”.
C’è un episodio che ci vuole raccontare?
“Non potrò mai dimenticare l’esperienza positiva che ho vissuto a Lourdes con don Diana, dal momento dell’organizzazione a quello del servizio sul posto. Riuscì a coinvolgere un gruppo di noi diciottenni. Restai colpito, inoltre, di come a Lourdes tutti conoscessero don Peppe, persino il vescovo del luogo. Un altro ricordo bellissimo è la santa messa che don Diana ha celebrato con un gruppetto di sette di noi sul Monte Meta nel Parco nazionale degli Abruzzi: non c’erano i paramenti, come altare c’era un masso, ma potevamo contemplare uno scenario mozzafiato. Don Peppe ci ha insegnato ad avvicinarci a Dio anche attraverso la bellezza del Creato”.