ACCADE IN VENETO
Qualcuno parla, forse strumentalmente, di “emergenza”. Ma chi lavora sul campo per l’integrazione offre una chiave di lettura completamente differente. Le esperienze – fra Vicenza e Verona – di Caritas, “Beati i costruttori di pace”, Comunità di Sant’Egidio
Via i campi nomadi e via la legge regionale che li avrebbe dovuti finanziare. Nel Veneto, oltre alle proteste contro l’arrivo di profughi che hanno portato sindaci e cittadini a iniziative plateali in più parti del territorio, c’è infatti anche una "questione" rom e sinti. Il nuovo capogruppo della Lega nord in Consiglio regionale, Nicola Finco, ha annunciato di aver dato il via all’iter per abrogare al più presto la legge 54 che dal 1989 finanziava in Veneto i campi per i "nomadi" e la loro integrazione, e che da anni non veniva rifinanziata, mentre il sindaco di Padova, Massimo Bitonci, non perde occasione per ribadire che i pochi campi di sosta rimasti in città dovranno sparire e sono frequenti gli sgomberi di accampamenti abusivi, l’ultimo dei quali nel fine settimana.
Le vere emergenze. In realtà, chiudere i campi sosta è un’idea che molti operatori e anche le Caritas condividono, purché vi sia la reale volontà di farsi carico delle situazioni di queste famiglie. "Stiamo parlando dello 0,2 per cento della popolazione italiana – spiega don Giovanni Sandonà, direttore della Caritas di Vicenza – e il Veneto non fa eccezione. Può essere considerata un’emergenza tale da giustificare che uno dei primi provvedimenti della nuova Giunta regionale sia abrogare una legge vuota? Le vere emergenze sono altre, il lavoro, il gioco d’azzardo, la casa". La legge 54 nasceva, negli anni Ottanta, per favorire la distribuzione nel territorio dei nuclei provenienti in gran numero dai Balcani. "Era a suo modo una idea saggia – continua don Sandonà – ma rimase una scatola vuota. Si dirà che è per questo che la si toglie: a me però preoccupa il segnale che si vuole dare, per nulla rassicurante. Lo dico in termini non polemici: qualsiasi ideologia è un meccanismo di difesa e fuga rispetto alla complessità della realtà, una forzatura che genera contraccolpi conflittuali che la storia ci insegna. Fa paura l’atteggiamento di conflitto sociale che cresce potentemente e su cui si soffia".
"Serve un esame di coscienza". Don Sandonà invita a guardare in faccia la realtà. "La maggior parte sono cittadini italiani, gli altri per lo più macedoni e bosniaci che sono qui da tempo e se si spostano è solo perché cercano un rubinetto d’acqua. Non hanno sovvenzioni, come vorrebbe far credere una leggenda metropolitana. Il nostro vescovo ha invitato a provare a guardare in faccia la realtà: è difficile occuparsi di 600 persone in una diocesi di 900mila abitanti. Cosa fare quindi? Affrontare la questione come tutte le altre e favorirne l’inclusione, come per qualsiasi cittadino italiano: in pochi anni si potrebbe fare". Dello stesso avviso don Albino Bizzotto, fondatore di "Beati i costruttori di pace". "Non parliamo di nomadi: quasi tutti sarebbero volentieri sedentari in una casa. Vanno cercate soluzioni concrete partendo dal dato che sono famiglie ancora patriarcali. Chi ha potuto le ha trovate da solo acquisendo terreni per metterci le roulotte: non capisco perché prendersela tanto e non favorire la sedentarietà e la possibilità di usufruire dei servizi, come tutti. Anche a livello europeo si favorisce questo tipo di passaggio, i campi non li vuole nessuno, loro per primi. Per il resto, è tutta propaganda politica e cresce il rischio fisico di essere eliminati non dalla violenza ma dalla mancanza di mezzi per sopravvivere". Per don Bizzotto "gli aiuti sociali sono quasi a zero, gli introiti di chi chiede l’elemosina sono calati moltissimo, le occupazioni di un tempo come la raccolta di ferro vecchio non rendono più e un lavoro fisso chi glielo da? Serve un esame di coscienza della politica ma anche delle comunità cristiane".
Percorsi di accompagnamento. Anche la Comunità di Sant’Egidio segue da anni alcune famiglie sinti di Padova, in particolare nell’accompagnamento scolastico dei minori. "Molto è cambiato in questi anni – spiega Mirko Sossai – e parlare di nomadi non è corretto, si tratta di famiglie per lo più italiane e stanziali, a Padova non più di 400 tra rom e sinti. Il fatto che in alcuni casi si siano acquistati il terreno dice chiaramente il loro desiderio di essere sedentari. La posizione della nostra comunità è che occorre concentrarsi su seri percorsi di accompagnamento socio-abitativo. Negli anni ’80 il sistema dei campi è stata una risposta emergenziale che è costata anche in termini di esclusione sociale: ora le risorse andrebbero indirizzate a progetti d’inserimento abitativo". Sossai aggiunge: "Se rivedere la legge regionale servisse ad attuare una chiara strategia d’inclusione, sarebbe positivo. Il tema vero oggi non è ‘cosa fare’ perché lo si sa chiaramente, ma avere il coraggio di attuarlo. Per noi rimane centrale anche il ruolo della scuola, la scolarizzazione è una risposta efficace". Diversamente vanno le cose a Verona, dove "la situazione ‘zingari’ – spiega il direttore Caritas, monsignor Giuliano Ceschi – non esiste o comunque da anni non è visibilmente tracciabile. I campi non ci sono più (il ‘campo’ della Spianà era stato smantellato dal sindaco Tosi circa sette anni fa) e le poche persone che si dedicano all’accattonaggio presso i semafori cittadini vengono trasportate a Verona con pulmini da altre provincie. In questo momento la Chiesa locale non ha progettualità in essere, salvo l’esperienza ultra decennale, dal 1972, con una comunità di sinti e rom accompagnata da un cappellano nominato dal vescovo".