DALLA REPUBBLICA DOMINICANA
Interessate decine di migliaia di dominicani d’origine haitiana. L’allarme è stato lanciato da una delegazione di Caritas italiana, in missione in questi giorni a Port-au-Prince, per verificare il lavoro compiuto in questi cinque anni e mezzo dal terremoto, grazie a circa 25 milioni di euro raccolti con la colletta nazionale del 2010. Il punto con Paolo Beccegato
Ad Haiti, il Paese più povero dell’America Latina, appena risollevato dalla tragedia del terremoto di cinque anni e mezzo fa che ha ucciso 220mila persone, ora l’emergenza è il rischio di espulsioni di massa di almeno 300mila haitiani dalla vicina Repubblica Dominicana, dove sono nati, vivono e lavorano. È infatti alta, in questo periodo, la tensione tra i due Paesi, che condividono la stessa isola caraibica: a causa di un Piano di regolarizzazioni degli stranieri voluto dalla Repubblica Dominicana, decine di migliaia di dominicani di origine haitiana non sono riusciti a completare l’iter per la naturalizzazione e ora si temono rimpatri forzati, con migliaia di militari che potrebbero usare manganelli e taser per costringere decine di migliaia di persone ad uscire dal Paese. A lanciare l’allarme è una delegazione di Caritas italiana, in missione in questi giorni a Port-au-Prince, per verificare il lavoro compiuto in questi cinque anni e mezzo dal terremoto, grazie a circa 25 milioni di euro raccolti (finora ne sono stati utilizzati 22 milioni e mezzo) con la colletta nazionale del 2010: 170 progetti, di cui chiusi e rendicontati circa 150, per la ricostruzione di ospedali, case, scuole, attività di microcredito, formazione, accompagnamento, eccetera, in tutte le 10 diocesi del Paese. Caritas italiana, presente ad Haiti con due operatori espatriati, opera accanto a Caritas Haiti in coordinamento con la rete internazionale che, complessivamente, ha finora aiutato oltre un milione e mezzo di persone. Ne abbiamo parlato con Paolo Beccegato, vicedirettore e responsabile dell’area internazionale di Caritas italiana.
Com’è oggi la situazione ad Haiti? È riuscita a risollevarsi dalle macerie?
"Sono stato qui altre due volte, nel 2017 e 2010. Allora c’erano ancora tante macerie, strade e infrastrutture ancora da sistemare e gente frustrata. Oggi dopo cinque anni e mezzo di lavoro si nota un sensibile miglioramento e la speranza di un cambiamento. Non ci sono più macerie, né tende. Alcune tende sono state trasformate in baraccopoli minimamente accettabili (non peggio di quelle che c’erano prima) però non ci sono più i grandi campi per gli sfollati. Rimane però un Paese che dal punto di vista di tutti gli indicatori della povertà istruzione, salute pubblica, reddito, violenza, disastri naturali, disboscamento – rimane il più povero di tutta l’America Latina. Però un minimo di stabilità politica di questi ultimi anni e un minimo di cooperazione internazionale hanno dato un impulso per la ripresa".
Le organizzazioni umanitarie sono ancora lì?
"La maggior parte delle organizzazioni umanitarie sono ancora lì. Anche noi stiamo continuando a ricostruire case e abbiamo un grande impegno di accompagnamento di lungo periodo, con alcuni nuovi progetti di cui abbiamo parlato in questi giorni. Stiamo ultimando il nostro impegno economico, puntiamo molto sulla qualità dei progetti e sullo sviluppo. L’idea fondamentale è di proseguire nella collaborazione fraterna tra Chiese".
E dal punto di vista politico? Ad autunno ci saranno le elezioni.
"Il dilemma sono le varie tornate elettorali. Tutto dipenderà da come il Paese sarà in grado di gestire questa fase di transizione politica perché sia minimamente democratica e pacifica. Questo non è assolutamente scontato. Se il Paese sarà in grado di fare una transizione costruttiva e continuare su questa linea forse c’è un po’ di speranza che Haiti possa prendere una piega diversa. Se invece ricadranno nelle violenze interne, strumentalizzate anche dall’esterno, si rischia di fare dei passi indietro".
Quali sono oggi le situazioni più problematiche?
"C’è il grande problema del rientro forzato di migliaia di haitiani dalla vicina Repubblica Dominicana, che ha fatto una nuova legge tesa ad espellere tutti gli stranieri secondo criteri assurdi. Sembra una mossa molto populista e di natura elettorale per rimandare queste persone nei Paesi di origine. È una manovra che colpisce principalmente gli haitiani, costretti a rientrare, anche se molti sono nati lì. hanno studiato lì, parlano solo spagnolo. C’è il rischio che vengano espulse 300mila persone. Ne sono state già mandate via 20mila, nei prossimi mesi si teme altri 30mila. È un problema enorme, perché molti sono immigrati di seconda e terza generazione, non sanno nemmeno quale fosse il paesino haitiano del nonno, non parlano né francese né creolo. C’è una grossa tensione tra i due Paesi, che in un certo senso ci ricorda quello che stiamo vivendo in Italia e in Europa: la chiusura e la miopia politica incapace di affrontare quella che è oramai una società globalizzata".
Da Haiti come si guarda al viaggio del Papa in Ecuador, Bolivia e Paraguay?
"Tutto il popolo latinoamericano sta vivendo queste giornate con una grandissima speranza e apertura, pensando di cogliere questa occasione per mostrare al Papa il grande movimento di sviluppo e partecipazione dei popoli, sia pure con grandi questioni aperte che sperano la presenza del Papa possa aiutare a risolvere o a reindirizzare verso cammini più positivi".