GIOVANNI PAOLO II: IL PECCATO IN TRE PAROLE EBRAICHE

Il peccato è “un’aberrazione, una deformazione, una ribellione” dalla quale si può essere liberati solo grazie ad una “terapia divina che il Signore compie attraverso la sua parola e mediante l’opera guaritrice di Cristo”. Lo ha detto oggi il Papa, nella consueta udienza del mercoledì, commentando il Salmo 50, comunemente detto “Miserere”, che il Santo Padre ha definito “il più intenso e ripetuto salmo penitenziale, il canto del peccato e del perdono, la più profonda meditazione sulla colpa e sulla grazia”. L’analisi del peccato, nel salmo 50, viene condotta attraverso tre termini ebraici. Il primo, “hattà”, significa letteralmente “mancare il bersaglio”: “Il peccato – ha commentato il Papa, che è sembrato, ancora una volta, riferirsi alla tragicità della situazione internazionale – è un’aberrazione che ci conduce lontano da Dio, meta fondamentale delle nostre relazioni, e per conseguenza anche dal prossimo”. Il secondo termine ebraico, invece (awòn), indica “l’inversione, la distorsione, la deformazione del bene e del male”, che può cessare solo con una “conversione” intesa come “correzione di rotta”. La terza parola con cui il salmista parla del peccato è, infine, “peshà”, che esprime “la ribellione del suddito nei confronti del sovrano, e quindi un’aperta sfida rivolta a Dio e al suo progetto per la storia umana”. Se l’uomo, ha precisato però il Papa, “confessa il suo peccato”, il Signore non agisce solo negativamente, eliminando il peccato, ma infonde nell’uomo un ‘cuore’ nuovo e puro, cioè una coscienza rinnovata”. Nel salmo 50, quindi, c’è “un senso vivissimo del peccato”, ma “un senso altrettanto vivo della possibilità di conversione”, grazie alla “radiata convinzione del perdono divino”.