Spiritualità

Esercizi spirituali Curia Romana: seconda meditazione, “riponiamo in Dio la nostra sete”

“Chi ha sete, venga”. È partito dall’ultima frase pronunciata da Gesù nel libro dell’Apocalisse il predicatore portoghese degli esercizi spirituali ad Ariccia per il Papa e la Curia Romana, don Josè Tolentino de Mendonça per la prima meditazione della seconda giornata, sul tema: “La scienza della sete”. Gesù promette di dissetarci riconoscendo che siamo “incompleti e in costruzione”, ha spiegato: “Mentre ci permette di dissetarci per pura grazia, palesando in tal modo l’amore incondizionato che egli riserva a noi, riconosce che siamo ancora incompleti e in costruzione. La nostra condizione è così spesso di indigenza che non sapremmo accedere, con le nostre forze, al bene che ci sazia. Non potremmo acquistarlo in nessun luogo, neppure se lo volessimo, poiché esso ci può essere solamente dato”. Gesù sa “quanti ostacoli ci frenano” e quante “derive ci ritardano”. Siamo “così vicini alla fonte e andiamo così lontano”. Nel desiderio e nella sete ci sono infatti due sentimenti contrastanti, ha evidenziato don Josè: l’attrazione e la distanza, il trasporto e la vigilanza. E allora la domanda da porsi è: noi desideriamo Dio? Sappiamo riconoscere la nostra sete? Ci diamo il tempo di decifrarla? Da questi interrogativi il predicatore – riferisce “Vatican News” – si è addentrato in un percorso che va dalla Bibbia ai testi del drammaturgo Ionesco e alle pagine del Piccolo principe di Saint- Exupéry, per evidenziare i contorni effettivi della sete come bisogno fisico, come riconoscimento dei nostri limiti, della nostra vulnerabilità estrema. “La sete ci priva del respiro, ci esaurisce, ci sfinisce. Ci lascia assediati e senza forze per reagire”, ha affermato, “ci porta al limite estremo”: “Si capisce come non sia facile esporsi alla sete”. Se dovessimo raccontare la parabola della nostra sete, ha proseguito don José, forse emergerebbero i tratti di Jean, il protagonista maschile de “La sete e la fame” di Ionesco, figura divorata da un “infinito vuoto”, da “un’inquietudine che nulla sembra poter placare”: “Una sete che si tramuta in una enorme insoddisfazione, nella disaffezione nei riguardi di ciò che è essenziale, in una incapacità di discernimento che ci butta tra le braccia del consumismo. Si parla molto contro il consumismo dei centri commerciali, ma non dimentichiamo che esiste anche un consumismo nella vita spirituale. E quel che si dice dell’uno aiuta a capire l’altro. Il fatto è che le nostre società che impongono il consumo come criterio di felicità trasformano il desiderio in una trappola”. La sete dell’uomo di oggi è quindi una sete che “si tramuta nella disaffezione nei riguardi di ciò che è essenziale, in una incapacità di discernimento”. E nelle nostre società è l’inganno: ogni volta infatti che pensiamo di appagare la nostra sete in una “vetrina”, in un “acquisto”, in un “oggetto”, il possesso comporta la sua svalutazione e questo fa crescere in noi il vuoto. L’oggetto del nostro desiderio, ha osservato quindi don José, è un “ente assente” è un “oggetto sempre mancante”. Eppure ha aggiunto, “il Signore non cessa di dirci ‘Chi ha sete, venga; chi desidera, beva gratuitamente l’acqua della vita’”.  Ci sono molti “modi di ingannare i bisogni e di adottare un atteggiamento di evasione spirituale senza mai prendere coscienza che siamo in fuga”, ha sottolineato don José: “Tiriamo in ballo sofisticate ragioni di redditività e di efficacia” sostituendo con esse l'”auscultazione profonda del nostro spazio interiore e il discernimento della nostra sete”. Invece, non esistono “pillole in grado di risolvere meccanicamente i nostri problemi”. Di qui l’invito conclusivo del predicatore: rallentiamo il “nostro passo”, “prendiamo coscienza dei nostri bisogni”, sediamo alla “tavola della fede”, non per “ragioni materiali o economiche” ma “per ragioni di vita”. La sete di “relazioni, di accettazione e di amore” è presente in ogni essere umano, è un patrimonio “biografico” che siamo chiamati a riconoscere e di cui rendere grazie: “In realtà ardono in noi tante seti. Noi le disprezziamo quasi fossero una materia esistenziale e spirituale non meritevole della nostra attenzione. Noi rifugiamo da esse, come se non avessero niente da rivelarci di Dio. È vero il contrario. Spendiamo del tempo a pregarle. La sete è un patrimonio biografico che siamo chiamati a riconoscere e ringraziare. È con noi fin dall’infanzia, accompagna i nostri anni di formazione, irrompe in modi diversi durante la vita adulta, matura al nostro stesso ritmo, invecchia, cambia nome e senso e rimane. La sete è la casa del vasaio in cui Dio ci plasma; è il cavo delle amorevoli mani di Dio che speranzosamente cercano forme nuove per dire la vita. È la pelle di Dio che tocca quel vaso che noi siamo. Forse non siamo ancora riusciti a ringraziare Dio della nostra sete, del bene, del cammino e della fonte che Dio ha fatto arrivare alla nostra vita. Riponiamo in Dio la nostra sete”.